Locale e universale
142. Va ricordato che «tra la globalizzazione e la localizzazione si produce
una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non
cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere
di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due
cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i
cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, […]; l’altro,
che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a
ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è
diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini».[124] Bisogna
guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa
non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come
la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna
assumere cordialmente la dimensione locale, perché possiede qualcosa che il
globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di
sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale
all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali.
Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa.
Il sapore locale
143. La soluzione non è un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non
c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra
popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti
culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale
sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro
e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e
riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio
popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la
propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve
amare e curare la propria casa perché non crolli, dato che non lo faranno i
vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria
terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su
tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di
proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere
un contributo al bene di tutti.
144. Inoltre, questo è un presupposto degli interscambi sani e arricchenti.
L’esperienza di vivere in un certo luogo e in una certa cultura è la base che
rende capaci di cogliere aspetti della realtà, che quanti non hanno tale
esperienza non sono in grado di cogliere tanto facilmente. L’universale non
dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma
culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro e risulterà
disgustosa. È la tentazione che emerge dall’antico racconto della torre di
Babele: la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo non esprimeva
l’unità tra vari popoli capaci di comunicare secondo la propria diversità. Al
contrario, era un tentativo fuorviante, nato dall’orgoglio e dall’ambizione
umana, di creare un’unità diversa da quella voluta da Dio nel suo progetto
provvidenziale per le nazioni (cfr Gen 11,1-9).
145. C’è una falsa apertura all’universale, che deriva dalla vuota
superficialità di chi non è capace di penetrare fino in fondo nella propria patria,
o di chi porta con sé un risentimento non risolto verso il proprio popolo. In
ogni caso, «bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più
grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere,
senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e
nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo,
con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. […] Non è né la sfera
globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili»[125],
è il poliedro, dove, mentre ognuno è rispettato nel suo valore, «il tutto è più
delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[126]
124] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre
2013), 234: AAS 105 (2013), 1115.
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