A questo punto, credo che valga la pena di leggere lentamente, attentamente, tutto il Discorso che Papa Francesco ha fatto al Convegno della Diocesi di Roma (i Vescovi, e tutta la Curia, con i responsabili di settori, i Decani, ...) il 9 maggio 2019. E' un po' lungo. La parte che ha suscitato il post di accusa contro Papa Francesco è subito all'inizio. Ho ripreso il testo dal sito https://www.gliscritti.it che ringrazio.
Grazie del vostro
intervento e del vostro ascolto.
La prima tentazione che può venire
dopo avere ascoltato tante difficoltà, tanti problemi, tante cose che mancano
è: “No no,
dobbiamo risistemare la città, risistemare la diocesi, mettere tutto a
posto, mettere ordine”. Questo sarebbe guardare a noi, tornare
a guardarci all’interno. Sì, le cose saranno risistemate e noi avremo messo a posto il “museo”, il
museo ecclesiastico della città, tutto in ordine… Questo significa
addomesticare le cose, addomesticare i giovani, addomesticare
il cuore della gente, addomesticare le famiglie; fare calligrafia, tutto
perfetto.
Ma questo sarebbe
il peccato più grande di mondanità e di spirito mondano
anti-evangelico. Non si tratta di “risistemare”. Abbiamo sentito [negli
interventi precedenti] gli squilibri della città, lo squilibrio dei giovani,
degli anziani, delle famiglie… Lo squilibrio dei rapporti con i figli… Oggi siamo stati chiamati a reggere lo squilibrio. Noi non possiamo fare qualcosa di
buono, di evangelico se abbiamo paura dello squilibrio.
Dobbiamo prendere lo squilibrio tra le mani: questo è quello che il Signore ci
dice, perché il
Vangelo – credo che mi capirete – è una dottrina “squilibrata”. Prendete le
Beatitudini: meritano il premio Nobel dello squilibrio! Il
Vangelo è così.
Gli Apostoli si sono
innervositi quando veniva il tramonto e quella folla – cinquemila solo gli
uomini – continuava ad ascoltare Gesù; e loro hanno guardato l’orologio e
dicevano: “Questo è troppo, dobbiamo pregare i Vespri, la Compieta… e poi
mangiare…”. E hanno cercato la maniera di “risistemare” le cose: si sono avvicinati al
Signore e hanno detto: “Signore, congedali, perché il posto è deserto: che
vadano a comprarsi da mangiare”, nella pianura deserta. Questa è l’illusione
dell’equilibrio della gente “di Chiesa” tra virgolette; e io credo – l’ho detto
non ricordo dove – che lì è incominciato il clericalismo: “Congeda la gente, che se ne
vadano, e noi mangeremo quello che abbiamo”. Forse lì c’è l’inizio del
clericalismo, che è un bell’“equilibrio”, per sistemare le cose.
Ho preso nota delle cose che ascoltavo e che mi toccavano il cuore… E poi, su questa strada del “sistemare le cose” avremo una bella diocesi funzionalizzata. Clericalismo e funzionalismo. Sto pensando – e questo lo dico con carità, ma devo dirlo – a una diocesi – ce ne sono parecchie, ma penso a una – che ha tutto funzionalizzato: il dipartimento di questo, il dipartimento dell’altro, e in ognuno dei dipartimenti ha quattro, cinque, sei specialisti che studiano le cose… Quella diocesi ha più dipendenti del Vaticano! E quella diocesi, oggi – non voglio nominarla per carità – quella diocesi si allontana ogni giorno di più da Gesù Cristo perché rende culto all’“armonia”, all’armonia non della bellezza, ma della mondanità funzionalista. E siamo caduti, in questi casi, nella dittatura del funzionalismo. È una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerygma. E tanti lasciano il kerygma, inventano sinodi e contro-sinodi… che in realtà non sono sinodi, sono “risistemazioni”. Perché? Perché per essere un sinodo – e questo vale anche per voi [come assemblea diocesana] – ci vuole lo Spirito Santo; e lo Spirito Santo dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo. Chiediamo al Signore la grazia di non cadere in una diocesi funzionalista. Ma io credo che, secondo quello che ho sentito, le cose sono ben orientate. E andiamo avanti.
Poi, questa sera, vorrei comprendere meglio il grido della gente della diocesi: ci aiuterà a comprendere meglio
cosa chiede la gente al Signore. Quel grido è un grido che spesso anche noi non
ascoltiamo o che facilmente dimentichiamo. E questo succede perché abbiamo
smesso di abitare
con il cuore. Abitiamo con le idee, con i piani pastorali, con
la curiosità, con soluzioni prestabilite; ma bisogna abitare con il cuore. Mi
ha colpito quello che don
Ben [direttore della Caritas] ha provato per quel ragazzo [che aveva visto prendere
un pezzo di pane da un cassonetto]: si è vergognato di sé stesso,
non è stato capace di andare a domandargli: “Cosa pensi, com’è il tuo cuore,
che cosa cerchi?”. Se
la Chiesa non fa questi passi, rimarrà ferma, perché non sa ascoltare con il
cuore. La Chiesa sorda al grido della gente, sorda all’ascolto
della città.
Vorrei condividere
qualche riflessione che ho qui – che mi hanno preparato e che io ho
“ricucinato” un po’ –, riflessioni che illuminino il cammino per il prossimo
anno.
Possiamo partire da un brano evangelico; poi richiamerò qualche passaggio del
discorso che ho fatto alla Chiesa italiana a Firenze [10 novembre 2015], che è
proprio lo stile della nostra Chiesa. “Che bello, quel discorso! Ah, il Papa ha parlato bene,
ha indicato bene la strada”, e dagli con l’incenso… Ma oggi, se io domandassi:
“Ditemi qualcosa del discorso di Firenze” – “Eh, sì, non ricordo…”. Sparito. È
entrato nell’alambicco delle distillazioni intellettuali ed
è finito senza forza, come un ricordo. Riprendiamo il discorso di Firenze che, con
la Evangelii
gaudium,
è il piano per la Chiesa in Italia ed è il piano per questa Chiesa di Roma.
Possiamo incominciare con un brano del Vangelo.
[Lettura di Matteo 18,1-14. : In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: "Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?". Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse... ]
Tenete bene nella mente e nel cuore che, quando il Signore vuole convertire
la sua Chiesa, cioè renderla più vicina a Sé, più cristiana, fa sempre così: prende il più
piccolo e lo mette al centro, invitando tutti a diventare piccoli e a “umiliarsi” –
dice letteralmente il testo evangelico – per diventare piccoli,
così come ha fatto Lui, Gesù. La riforma della Chiesa incomincia dall’umiltà, e
l’umiltà nasce e cresce con le umiliazioni. In questa maniera neutralizza le
nostre pretese di grandezza. Il Signore non prende un bambino perché è più
innocente o perché è più semplice, ma perché sotto i 12 anni i bambini non
avevano nessuna rilevanza sociale, in quel tempo. Solo chi segue Gesù per
questa strada dell’umiltà e si fa piccolo può davvero contribuire alla missione
che il Signore ci affida.
Chi cerca la propria
gloria non saprà né ascoltare gli altri né ascoltare Dio, come potrà
collaborare alla missione? Forse uno di voi, non ricordo chi, mi diceva che non
voleva incensare: ma fra noi ci sono tanti “liturgisti” sbagliati che non hanno
imparato a incensare bene: invece di incensare il Signore, incensano sé stessi
e vivono così. Chi cerca la propria gloria, come potrà riconoscere e accogliere
Gesù nei piccoli che gridano a Dio? Tutto il suo spazio interiore è occupato da
sé stesso o dal gruppo a cui appartiene – persone come noi, tante volte – per
cui non ha né occhi né orecchie per gli altri.
Quindi il primo
sentimento da avere nel cuore, per sapere ascoltare, è l’umiltà e il guardarsi
bene dal disprezzare i piccoli, chiunque essi siano, giovani affetti da
orfanezza o finiti nel tunnel della droga, famiglie provate dalla quotidianità
o sfasciate nelle relazioni, peccatori, poveri, stranieri, persone che hanno
perso la fede, persone che non hanno mai avuto la fede, anziani, disabili,
giovani che cercano il pane nell’immondizia, come abbiamo sentito…
Guai a chi guarda dall’alto in basso e disprezza i piccoli. Soltanto in un caso
ci è lecito guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla ad alzarsi.
L’unico caso. In altri casi non è lecito. Guai a quelli che guardano dall’alto
in basso per disprezzare i piccoli, anche
quando i loro stili di vita, i modi di ragionare fossero lontanissimi dal
Vangelo; nulla giustifica il nostro disprezzo.
Chi è senza umiltà e
disprezza non sarà mai un buon evangelizzatore, perché non vedrà mai al di là
delle apparenze. Penserà che gli altri siano solo nemici, dei “senza Dio”, e
perderà l’occasione di ascoltare il grido che hanno dentro, quel grido che
spesso è dolore e sogno di un “Altrove”, in cui si manifesta il bisogno della
salvezza. Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono
l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che
un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una
volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che
ci salverà da questa “risistematizzazione” diocesana. Che tra l’altro è un gattopardismo: voler cambiare
tutto perché nulla cambi.
Il secondo tratto necessario – il primo è l’umiltà: per
ascoltare, tu devi abbassarti – il
secondo tratto necessario per ascoltare il grido è il disinteresse. Viene espresso nel brano
evangelico della parabola del pastore che va in cerca della pecora che si è
smarrita. Non ha nessun interesse personale da difendere,
questo buon pastore: l’unica preoccupazione è che nessuno si perda. Abbiamo
interessi personali, noi che siamo qui questa sera? Ognuno ci può pensare: qual è il mio
interesse nascosto, personale, che ho nella mia attività ecclesiale? La
vanità? Non so… ognuno ha il proprio. Siamo preoccupati delle nostre strutture
parrocchiali?, del futuro del nostro istituto?, del consenso sociale?, di
quello che la gente dirà se ci occupiamo dei poveri, dei migranti, dei rom? O
siamo attaccati a quel po’ di potere che esercitiamo ancora sulle persone della
nostra comunità o del nostro quartiere? Tutti noi abbiamo visto parrocchie che
hanno fatto scelte sul serio, sotto l’ispirazione dello Spirito, e tanti fedeli
che andavano lì si sono allontanati perché “ah, questo parroco è troppo
esigente, anche un po’ comunista”, e la gente se ne va. E quando non arrivano
le lamentele al vescovo… E se il vescovo non è coraggioso, se non è un uomo che
ha umiltà, un uomo disinteressato, chiama il prete e gli dice: “Non esagerare,
sai, un po’ di equilibrio…”.
Ma lo Spirito Santo non
capisce l’equilibrio, non lo capisce. Capisce la […]. Il disinteresse per sé
stessi è la condizione necessaria per poter essere pieni di interesse per Dio e
per gli altri, per poterli ascoltare davvero. C’è il “peccato dello specchio”. E noi, preti, suore,
laici con la vocazione di lavorare, cadiamo tante volte in questo peccato dello
specchio: si chiama narcisismo
e autoreferenzialità, i peccati dello specchio che ci soffocano. Il
Signore ha ascoltato il grido degli uomini che ha incontrato e si è fatto loro
vicino, perché non
aveva nulla da difendere e nulla da perdere, non aveva “lo
specchio”: aveva
la coscienza in preghiera, in contemplazione con il Padre e unta dallo Spirito
Santo. Questo è il suo segreto, e per questo è andato avanti.
Lascia le novantanove al sicuro e si mette a cercare chi si è smarrito.
Noi, invece, come ho detto altre volte, siamo spesso ossessionati per le
poche pecore che sono rimaste nel recinto. E tanti smettono di essere pastori
di pecore per diventare “pettinatori” di pecore squisite. E passano tutto il
tempo a pettinarle. Tante? No. Dieci…, piccola cosa… E’ brutto.
Non troviamo mai il coraggio di cercare le altre, quelle che si sono perse,
che vanno per sentieri che non abbiamo mai
battuto. Per favore, convinciamoci che tutto merita di essere
lasciato e sacrificato per il bene della missione. Lasciare l’orgoglio, essere
umili, lasciare questo benessere, questo interesse per sé stessi. Mosè, di
fronte alla missione, ha avuto paura, ha fatto mille resistenze e obiezioni; ha
cercato di convincere Dio a rivolgersi a qualcun altro; ma alla fine, è sceso
con Dio in mezzo al suo popolo e si è messo ad ascoltare. Che il Signore ci
riempia il cuore dell’audacia e della libertà di chi non è legato da interessi
e vuole mettersi con empatia e simpatia in mezzo alle vite degli altri.
L’ultimo tratto del
cuore, necessario per ascoltare il grido e per evangelizzare, è avere sperimentato le
Beatitudini. Oggi parlavo con un rabbino, molto amico, che era venuto da
Buenos Aires, e mi ha detto: “Nella Legge io trovo che il nostro punto di
partenza per il dialogo giudeo-cristiano sia la legge dell’amore: Amerai il tuo
Dio con tutte le forze e il prossimo come te stesso. E nel Vangelo, nei libri cristiani,
quale pensi tu che sia un testo che possa aiutarci tanto?”. Gli ho detto
subito: “Le Beatitudini”. Le Beatitudini sono un messaggio
cristiano, ma anche umano. È il messaggio che ti fa vivere, il messaggio della
novità… A me sempre ha aiutato pensare che anche alla gente pagana o agnostica, le Beatitudini
arrivano. Lo stesso Gandhi a suo tempo ha confessato che era il
suo testo preferito. Le Beatitudini: significa avere imparato dal Signore e
dalla vita dov’è la
gioia vera, quella che il Signore ci dona, e saper discernere dove
trovarla e farla trovare agli altri, senza sbagliare strada.
Chi sbaglia strada o chi inciampa, magari con la presunzione di
camminare sulla via di Dio, rischia di far sbagliare e inciampare anche gli
altri. Lo vediamo
in alcuni movimenti pelagiani o in alcuni movimenti esoterici, o gnostici, che
oggi ci sono tra noi: tutti inciampano, tutti, sono incapaci di andare verso un
orizzonte, vanno un po’ avanti per tornare su sé stessi; sono le proposte
egocentriche. Invece, le Beatitudini sono teocentriche, che
guardano la vita, ti portano avanti, ti spogliano ma ti rendono più leggero per
seguire Gesù. E Gesù parla di non scandalizzare i piccoli. Perché? Perché lo
scandalo è una pietra d’inciampo. Tu non hai capito lo spirito delle
Beatitudini.
Pensiamo al mondo dei
dottori della Legge: era una continua pietra d’inciampo al popolo. Il popolo sapeva
che non avevano autorità: scandalizzavano. E per questa strada finiamo per
diventare guide cieche: inciampiamo noi e facciamo inciampare chi pretendiamo
di aiutare. Alle persone fragili, ferite dalla vita o dal peccato, ai piccoli
che gridano a Dio possiamo e dobbiamo offrire la vita delle Beatitudini che
anche noi abbiamo sperimentato, cioè la gioia dell’incontro con la misericordia di Dio, la bellezza di una vita
comunitaria di famiglia dove si è accolti per quello che si è, delle relazioni
davvero umane piene di mitezza.
Mi fermo un po’ su
questo. In questi giorni sono un po’ ossessionato dalla mitezza. È una parola che rischia
di cadere dal dizionario, come quasi è caduto il verbo “accarezzare”… La
mitezza, la tenerezza, i gesti di tenerezza di Gesù… La mitezza accoglie ognuno
come è. La ricchezza dei mezzi poverissimi, senza effetti speciali… Oggi, nell’incontro con i Rom, ho
trovato suor Geneviève, che da 50 anni vive tra loro, anche con i circensi del
luna park, in una roulotte. Semplice: prega, sorride, accarezza, fa del bene
con le Beatitudini. I mezzi poverissimi dell’ascolto, del
dialogo viso a viso, l’entusiasmo di lavorare insieme con coraggio per la
giustizia e la pace, l’aiuto reciproco nel momento della fatica o della
persecuzione, lo splendore quotidiano del contemplare con cuore puro il volto
di Dio nella liturgia, nell’ascolto della Parola, nella preghiera, nei poveri... Vi sembra poco tutto questo? Questa
è la strada.
È vero che le
Beatitudini donate da Dio non sono il nostro “piatto forte”: dobbiamo imparare
ancora; dobbiamo cercare per questa strada di offrire ai nostri concittadini il
piatto forte che li farà crescere. E quando lo trovano, ecco che la fede fiorisce, mette radici,
si innesta nella vigna che è la Chiesa da cui riceve la linfa della vita dello
Spirito. Pensiamo di dovere offrire altro al mondo, se non il Vangelo creduto e
vissuto? Vi prego, non scandalizziamo i piccoli offrendo lo spettacolo di una
comunità presuntuosa... Vi invito a visitare l’Elemosineria Apostolica: lì, il
Cardinale Krajewski, che è un po’ “diavoletto”, ha messo una fotografia che ha
fatto un giovane fotografo di Roma, artista: c’è l’uscita di un ristorante,
d’inverno, esce una signora di una certa età, quasi anziana, con la pelliccia,
il cappello, i guanti, elegantissima la signora, solo guardando tu senti
l’odore del profumo francese, tutto perfetto…, e ai piedi della porta, sul
pavimento, un’altra donna, vestita di stracci, che tende la mano; e quella
signora elegante guarda dall’altra parte.
Quella fotografia si
chiama indifferenza. Andate a vederla. Non scandalizziamo i
piccoli. Non cadiamo nell’indifferenza. Se offriamo lo spettacolo di una
comunità presuntuosa – come questa fotografia –, interessata, triste, che vive
la competizione, il conflitto, l’esclusione, ci meritiamo le parole di Gesù:
“Non ho bisogno di voi, non mi servite a nulla. Anzi, poiché rischiate di fare
molti danni – direbbe Gesù – sarebbe meglio che spariste, buttandovi nel fondo
del mare”. Per non scandalizzare. Roma
è un po’ lontana dal mare, ma si può dire: “Vatte a butta’ ner Tevere”.
A Firenze chiesi poi a tutti i partecipanti al Convegno di
riprendere in mano la Evangelii
gaudium. Questo è il secondo punto di partenza
dell’evangelizzazione post-conciliare. Perché dico “secondo punto di partenza”?
Perché il primo
punto di partenza è il documento più grande uscito dal dopo-Concilio: la Evangelii nuntiandi [di Paolo VI, 8 dicembre
1975]. L’Evangelii
gaudium è
un aggiornamento, un’imitazione dell’Evangelii nuntiandi per l’oggi, ma la forza è il
primo. Prendete in mano la Evangelii gaudium, ritornate sul percorso
di trasformazione missionaria delle comunità cristiane che è proposto nelle
pagine dell’Esortazione. Lo stesso chiedo a voi stasera, indirizzandovi in
particolare a una parte del secondo capitolo dell’Evangelii gaudium, quello delle sfide all’evangelizzazione, le sfide
della cultura urbana: i numeri che vanno dal 61 al 75. Faccio
due sottolineature, che, in vista del cammino del prossimo anno, rappresentano
anche i due compiti che vi affido.
1) Esercitare uno sguardo
contemplativo sulla vita delle persone che abitano la città. Guardare. E per
far questo, in ogni parrocchia cerchiamo di comprendere come vivono le persone, come pensano, cosa
sentono gli abitanti del nostro quartiere, adulti e giovani; cerchiamo di raccogliere storie di vita.
Storie di vite esemplari, significative di quello che vive la maggioranza delle
persone. Possiamo raccogliere queste storie di vita interrogando con amicizia i genitori
dei bambini e dei ragazzi, o andando a trovare gli anziani, o intervistando i
giovani a scuola, d’intesa con i loro insegnanti. Ho menzionato gli anziani:
per favore, non dimenticateli. Adesso sono più curati perché,
siccome manca il lavoro e l’anziano ha la pensione, lo curano meglio,
l’anziano… Ma fate parlare i vecchi: non per diventare antiquati, no, per avere
l’odore delle radici e potere andare avanti radicati. Noi, con questa
tecnologia del virtuale, rischiamo di perdere il radicamento, le radici,
di diventare
sradicati, liquidi – come diceva un filosofo –
oppure, come piace piuttosto dire a me, gassosi, senza consistenza, perché non
siamo radicati e abbiamo perso il succo delle radici per crescere, per fiorire,
per dare frutti. Facciamo parlare gli anziani: non
dimenticatevi di questo. Un ascolto della gente che sempre più è il grido dei
piccoli. Ma soprattutto abbiate
uno sguardo contemplativo, per avvicinarsi con questo sguardo…
E avvicinarsi toccando la realtà. Il
tatto, dei cinque sensi, è il più pieno, il più completo.
2) Secondo compito:
esercitare uno sguardo contemplativo sulle culture nuove che si generano nella
città. Lo sappiamo, la città di Roma è un organismo che palpita:
prendiamo consapevolezza che lì, dove le persone vivono e si incontrano, si
produce sempre qualcosa di nuovo che va al di là delle singole storie dei suoi abitanti.
Nella Evangelii
gaudium ho sottolineato che sono proprio i contesti urbani i luoghi dove
viene prodotta una nuova cultura: nuovi racconti, nuovi simboli, nuovi
paradigmi, nuovi linguaggi, nuovi messaggi (cfr n. 73). Occorre capirli;
trovarli e capirli. E tutto questo produce del bene e del male.
Il male è spesso sotto gli occhi di tutti: «cittadini a metà, non cittadini,
avanzi urbani» (ibid.,
74), perché ci
sono persone che non accedono alle stesse possibilità di vita degli altri e che
vengono scartate; segregazione, violenza, corruzione, criminalità, traffico di
droga e di esseri umani, abuso dei minori e abbandono degli anziani. Si
generano così delle tensioni insopportabili. Come avete
ricordato, ci sono in tanti quartieri di Roma guerre tra poveri, discriminazioni,
xenofobia e anche razzismo. Oggi ho incontrato in Vaticano cinquecento Rom e ho
sentito cose dolorose. Xenofobia.
State attenti, perché il fenomeno culturale mondiale, diciamo almeno europeo,
dei populismi cresce seminando paura. Ma nella città c’è anche tanto bene,
perché ci sono luoghi positivi, luoghi fecondi: lì dove i cittadini si
incontrano e dialogano in maniera solidale e costruttiva, ecco che si crea «un
tessuto connettivo dove persone e gruppi condividono
diverse modalità di sognare la vita, immaginari simili, e si costituiscono
nuovi settori umani, territori culturali invisibili» (ibid.).
Il Signore benedica il nostro ascolto della città. E poi, ci diamo appuntamento a Pentecoste.
Sarà per noi l’incontro con il volto del Signore nel roveto ardente. Ci
toglieremo i sandali, ci veleremo il volto e diremo a Dio il nostro “sì”: Ti
seguiamo mentre scendi in mezzo al popolo, per ascoltare il grido dei poveri.
Grazie!
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