CAPITOLO
PRIMO
INDIGNARSI E CHIEDERE PERDONO
...
13. Alcuni slogan hanno contribuito a questa confusione, tra
gli altri quello del “non concedere”,[7] come
se tale asservimento potesse venire solo dall’esterno dei Paesi, mentre anche
poteri locali, con la scusa dello sviluppo, hanno partecipato ad alleanze allo
scopo di distruggere la foresta – con le forme di vita che ospita – impunemente
e senza limiti. I popoli originari tante volte hanno assistito impotenti alla
distruzione dell’ambiente naturale che permetteva loro di nutrirsi, di curarsi,
di sopravvivere e conservare uno stile di vita e una cultura che dava loro
identità e significato. La disparità di potere è enorme, i deboli non hanno
risorse per difendersi, mentre il vincitore continua a prendersi tutto. «I
poveri restano ognora poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi».[8]
14. Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali,
che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al
territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo
consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine.
Quando alcune aziende assetate di facili guadagni si appropriano dei terreni e
arrivano a privatizzare perfino l’acqua potabile, o quando le autorità danno il
via libera alle industrie del legname, a progetti minerari o petroliferi e ad
altre attività che devastano le foreste e inquinano l’ambiente, si trasformano
indebitamente i rapporti economici e diventano uno strumento che uccide. È
abituale ricorrere a mezzi estranei ad ogni etica, come sanzionare le proteste
e addirittura togliere la vita agli indigeni che si oppongono ai progetti,
provocare intenzionalmente incendi nelle foreste, o corrompere politici e gli
stessi indigeni. Ciò è accompagnato da gravi violazioni dei diritti umani e da
nuove schiavitù che colpiscono specialmente le donne, dalla peste del narcotraffico
che cerca di sottomettere gli indigeni, o dalla tratta di persone che
approfitta di coloro che sono stati scacciati dal loro contesto culturale. Non
possiamo permettere che la globalizzazione diventi «un nuovo tipo di
colonialismo».[9]
15. Bisogna indignarsi,[10] come
si indignava Mosè (cfr Es 11,8), come si indignava Gesù
(cfr Mc 3,5), come Dio si indigna davanti all’ingiustizia
(cfr Am 2,4-8; 5,7-12; Sal 106,40). Non è
sano che ci abituiamo al male, non ci fa bene permettere che ci anestetizzino
la coscienza sociale, mentre «una scia di distruzione, e perfino di morte, per
tutte le nostre regioni […] mette in pericolo la vita di milioni di persone e in
special modo dell’habitat dei contadini e degli indigeni».[11] Le
storie di ingiustizia e di crudeltà accadute in Amazzonia anche durante il
secolo scorso dovrebbero provocare un profondo rifiuto, ma nello stesso tempo
dovrebbero renderci più sensibili a riconoscere forme anche attuali di
sfruttamento umano, di prevaricazione e di morte. In merito al passato
vergognoso, raccogliamo, a modo di esempio, una narrazione sulle sofferenze
degli indigeni dell’epoca del caucciù nell’Amazzonia venezuelana: «Agli
indigeni non davano denaro, solo mercanzia e a caro prezzo, così non finivano
mai di pagarla, […] pagavano, ma dicevano all’indigeno: “Lei ha un grosso
debito”, e doveva ritornare a lavorare […]. Più di venti villaggi ye’kuana sono
stati completamente devastati. Le donne ye’kuana sono state
violentate e amputati i loro petti, quelle gravide sventrate. Agli uomini
tagliavano le dita delle mani o i polsi in modo che non potessero andare in
barca, […] insieme ad altre scene del più assurdo sadismo».[12]
16. Questa storia di dolore e di disprezzo non si risana
facilmente. E la colonizzazione non si ferma, piuttosto in alcune zone si
trasforma, si maschera e si nasconde,[13] ma
non perde la prepotenza contro la vita dei poveri e la fragilità dell’ambiente.
I Vescovi dell’Amazzonia brasiliana hanno ricordato che «la storia
dell’Amazzonia rivela che è sempre stata una minoranza che guadagnava a costo
della povertà della maggioranza e della razzia senza scrupoli delle ricchezze
naturali della regione, elargizione divina alle popolazioni che qui vivono da
millenni e ai migranti che sono arrivati nel corso dei secoli passati».[14]
17. Mentre lasciamo emergere una sana indignazione,
ricordiamo che è sempre possibile superare le diverse mentalità coloniali per
costruire reti di solidarietà e di sviluppo: «la sfida è quella di assicurare
una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza
marginalizzazione».[15] Si
possono cercare alternative di allevamento e agricoltura sostenibili, di
energie che non inquinino, di risorse lavorative che non comportino la
distruzione dell’ambiente e delle culture. Al contempo, occorre assicurare agli
indigeni e ai più poveri un’educazione adeguata, che sviluppi le loro capacità
e li valorizzi. Proprio su questi obiettivi si gioca la vera scaltrezza e la
genuina capacità dei politici. Non sarà per restituire ai morti la vita che si
è loro negata, e nemmeno per risarcire i sopravvissuti di quei massacri, ma
almeno perché possiamo essere oggi realmente umani.
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