Festa dell’Esaltazione
della Croce
Un rischio sottile
secondo papa Francesco
La “mondanità
spirituale”
Avevo cominciato a scrivere sulle letture di oggi
e credo che sia molto importante comprendere il valore del serpente di bronzo
innalzato da Mosè e ciò che Gesù innalzato sulla croce vi aggiunge. Ma mi sono
imbattuto in testi di Padre De Lubac, citato molto spesso da papa Francesco anche di recente, a proposito della “mondanità spirituale” e anche questo
mi sembra un commento molto appropriato per la festa di oggi. Riprendo dal sito
della parrocchia di san Simpliciano (https://www.sansimpliciano.it ›
docs › doc1299)
De
Lubac, stesso d’altra parte, rimanda ad una fonte precedente che già aveva
fatto uso di quella espressione: Dom Anscar Vonier (1875-1938), benedettino,
che in un saggio del 1935, “Lo Spirito e lo sposa” (trad. it. Firenze 1949),
usava appunto l’espressione mondanità spirituale per definire «un atteggiamento
che si presenta praticamente come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui
ideale morale, nonché spirituale, non è la gloria del Signore, ma l’uomo e la
sua perfezione. Un atteggiamento radicalmente antropocentrico; ecco la mondanità
dello spirito. Essa diverrebbe imperdonabile nel caso – supponiamolo possibile
– di un uomo che sia dotato di tutte le perfezioni spirituali, ma che non le
riferisca a Dio». Le espressioni di Vonier sopra riportate, espressamente
citate da De Lubac, sono da lui così commentate:
Se questa mondanità spirituale dovesse invadere la
Chiesa e lavorare per corromperla attaccandosi al suo principio stesso, sarebbe
infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale. Peggio
ancora di quella lebbra che, in certi momenti della storia, sfigurò così
crudelmente la Sposa diletta, quando la religione pareva introdurre lo scandalo
nel “santuario stesso e, rappresentata da un papa libertino, nascondeva il
volto di Gesù sotto pietre preziose, sotto belletti ed orpelli”. Nessuno di noi
è totalmente sicuro da questo male. Un umanesimo sottile, avversario del Dio
vivente, e non meno nemico dell’uomo, segretamente, può insinuarsi in noi
attraverso mille vie tortuose. La curvitas originale non è mai in noi
definitivamente raddrizzata. Il “peccato contro lo Spirito” è sempre possibile.
Ma nessuno di noi si identifica con la Chiesa. Nessun nostro tradimento può
consegnare al Nemico la Città che il Signore stesso custodisce. (H. DE LUBAC,
Meditazioni sulla Chiesa, Milano 1955, pp. 446-447)
Papa Francesco
riprende dunque, e molto insiste nella denuncia di questo difetto della
«mondanità spirituale», che egli attribuisce a molti operatori pastorali. Esso
è un difetto nascosto: «si nasconde – egli dice – dietro apparenze di
religiosità e persino di amore per la Chiesa»; e tuttavia la sua sostanza
«consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il
benessere personale». La gloria per sé stessi è cercata, certo, in maniera
‘spirituale’, esibendo cioè segni di grande religiosità e amore per la Chiesa.
A due riprese il Papa sottolinea, quasi con stupore, come difetti anche
consistenti nel ministero del Vangelo possano accompagnarsi alla persistenza
della preghiera.
Ho trovato poi sul sito gliscritti.it, fonte sempre molto
interessante, altre citazioni di De Lubac
tratte ugualmente da “Meditazioni sulla Chiesa”.
C'è un'altra tentazione. Anche questa non è tentazione di anime
volgari; è la più grave di tutte. Essa si insinua muovendo da una
costatazione che era già stata fatta da S. Paolo: «Vedete, fratelli, - scriveva
S. Paolo ai cristiani di Corinto - non ci sono molti saggi, molti potenti,
molti nobili in mezzo a voi»[1].
I saggi, i potenti ed i nobili possono anche essere venuti in seguito, ma la
riflessione dell'Apostolo conserva intatta la sua verità profonda e
multiforme. Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha
sempre l'aspetto della schiava. Esiste quaggiù in «forma di serva»[2]. E
non è soltanto la saggezza del mondo, nella sua accezione più materiale che le
manca: è anche, almeno apparentemente, la saggezza dello spirito.
Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati
spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario.
S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i
mediocri, che si sentono particolarmente a casa loro e che impongono ovunque il
loro tono. I suoi più splendidi progressi non fanno che
accentuare questo carattere nella maggioranza dei suoi membri, come nel
tessuto quotidiano della sua esistenza. È difficile, o piuttosto, assolutamente
impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una
radicale trasformazione[3],
riconoscere in questo fatto il compimento della Kenosi salvifica e la traccia
adorabile della «umiltà di Dio»[4].
Da quando esiste, la Chiesa si è sempre attirata il disprezzo di una élite. Filosofi o spirituali, molti spiriti
superiori, preoccupati d'una vita profonda, le rifiutano la loro adesione.
Alcuni le sono apertamente ostili. Come Celso essi sono disgustati da «questa
accozzaglia di gente semplice»[5].
Una stretta appartenenza alla Chiesa cattolica, si dice, ostacolerebbe la
libera ricerca, frenerebbe l'audacia dello slancio spirituale, e
condurrebbe ad un rigido inquadramento e ad una volgare promiscuità. Una
inchiesta imparziale può provare che la sapienza che essa propone e che essa
infonde non consiste in un ammasso di «puerili futilità», come credeva
Sant'Agostino prima che le prediche di Sant'Ambrogio gli avessero aperto gli
occhi[12]. Essa
può inoltre portare a scoprire la solidità del suo dogma, può fare intravvedere
la profondità dei suoi misteri e della interpretazione ortodossa datane dai
grandi dottori. Essa può, infine, fare ammirare gli splendori dell'arte e la
ricchezza della cultura che, almeno in certe epoche, ne illuminarono il volto
umano. Tutto questo non muta l'evidente volgarità del tessuto connettivo a
cui ogni esistenza cattolica deve adattarsi giorno per giorno e nel quale anzi
deve inserirsi.
Davanti alle pitture delle catacombe romane, prima espressione figurata
della Parola che risuonò nel Cristo, André Malreaux esclama: «Quale distanza
tra queste povere figure e quella voce profonda!»[13].
Sinceramente, se la consideriamo con uno sguardo realista, non nel cielo
delle pure idee ma nella sua realtà concreta, «che cosa è la Chiesa se non, per
così dire, un corpo di umiliazione che provoca, in coloro che non vivono di
fede, l'insulto, l'empietà, l'avversione o quanto meno un indulgente riserbo?»[16].
Ora è proprio questo, è tutto questo complesso che si tratta non soltanto
di subire in quello che ha di fatale, - e neppure, certo, di canonizzare in
blocco - ma di assumere con totale lealtà. Non esiste un
«cristianesimo privato»[17].
Per amare la Chiesa è necessario, vincendo ogni ripugnanza, amarla nella
sua massiccia tradizione ed immergersi nella sua vita come il grano affonda
nella terra. Bisogna
spingere fino al limite la logica della Incarnazione, per cui la divinità si
adegua alla debolezza umana. Per possedere il tesoro bisogna avere il «vaso
d'argilla» che lo contiene[18],
fuori del quale esso si sperde. Bisogna accettare quello che S. Paolo, che
conosceva le tentazioni avversarie, chiamava «la semplicità nel Cristo»
Bisogna far parte, senza alcuna riserva, della «plebe di Dio». In altri
termini, la necessità di essere umile per aderire a Gesù Cristo comporta la
necessità di essere umile per cercarlo nella sua Chiesa e la necessità di
unire, alla sottomissione della intelligenza, «l'amore della fraternità»[19]. Soltanto colui che rimane unito a tutte le membra del suo Corpo,
partecipa del Cristo. Il ricco, il forte; il saggio, non dicono al povero, al
debole, all'ignorante: tu non mi sei necessario... Sa che fa parte del
Corpo di Cristo che è la Chiesa, e deve sapere che quelli che nella Chiesa
appaiono deboli, poveri, ignoranti, devono essere tenuti in maggior onore e
circondati di migliori cure, precisamente come i peccatori. In questo modo
potrà dire di se stesso: Io ho il timore di Dio.
È quanto già scriveva San Clemente Romano, uno dei successori di San
Pietro, cogliendo, di colpo, il senso profondo della Chiesa: «Il Cristo
appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di
sopra del gregge»[20].
Nella Chiesa, agli occhi dell’uomo superiore, tutto è basso. Ma «la forza
si accorda con questa bassezza»[21]. Si accorda, anzi, soltanto con essa. Le forme ideali di cui l’uomo
superiore si compiace, gli sembrano così alte e così pure soltanto perché sono
opera sua.
Noi sappiamo, purtroppo, che la professione di cattolico, e di cattolico
militante, non conferisce automaticamente la santità; anzi, dobbiamo ammettere
che tra noi, anche nei migliori, nei più puri, nei più ferventi, vi sono molte
miserie umane che spesso intralciano l’opera dello Spirito
Santo. Sappiamo però anche che il più piccolo dei nostri santi è più libero,
interiormente, che il più grande maestro di sapienza.
Nella sua apparente bassezza, la Chiesa è il sacramento, cioè il segno
veridico ed efficace di queste «Profondità di Dio».
Quando, sollecitato da una logica interiore che non era una semplice
«logica libresca», Newman venne ad inginocchiarsi ai piedi del Padre Domenico Barberi,
per chiedergli di riceverlo nella Chiesa, egli non
sacrificava solamente una posizione, abitudini care, amicizie scelte, una
dimora spirituale, dolorosamente ma sempre teneramente amata, una fama già
largamente consolidata. Le condizioni dei tempi erano delle più sfavorevoli. Era
una sera dell'autunno 1845, verso la fine del pontificato di Gregorio XVI. «Il
cattolicesimo appariva ovunque come un vinto della vita, tanto più pietoso
in quanto si trascinava ancora dietro tanti resti derisori di una recente
grandezza.
Qualche anno più tardi egli dirà: La nostra epoca
sembra piuttosto [somigliare] a quell'età primitiva in cui la Chiesa era
apparentemente così umile nella nobiltà, nella scienza, nella ricchezza,
nell'eredità del Signore; quando noi facevamo le nostre reclute soprattutto tra
i ranghi più negletti della società, quando eravamo poveri, e ignoranti,
disprezzati e odiati dai grandi e dai filosofi, come membri d'un'associazione
grossolana, stupida e ostinata; quell'età durante la quale la storia non fa
menzione di nessun santo che abbia fatto epoca con un'idea grandiosa, quali poi
S. Tommaso d'Aquino o S. Ignazio di Loyola, ma dove i più abili scrivani
cosiddetti cristiani, appartenevano a scuole eretiche.
Nei cattolici romani Newman non trovava nulla d'attraente. «Io non ho
simpatia per loro, confessava. Da loro attendo ben poco. Unendomi a loro faccio
di me stesso un paria. Mi incammino verso il deserto». E non prevedeva ancora, allora, tutte le contrarietà che lo avrebbero
amareggiato nella traversata di questo vasto deserto! Ma per la sua anima
fedele tale passo era una «necessità», e mai, in seguito, ebbe a rimpiangerlo
per un solo istante[26].
[1] I
Cor., I, 26.
[2] Philipp.,
II, 7.
[4] S.
AGOSTINO, Enchiridion, c. 108; «…ut humana superbia per humilitatem
Dei argueretur ac sanaretur» (P. L., 40, 283). Sermo 184, n. 1:
«Teneant ergo humiles humilitatem Dei» Sermo 51, 4-5. (P. L., 38,
336); Sermo 117, n. 17 (P. L., 38, 671); Sermo
123, n. 1 (col. 684); Sermo 142, n. 2 (col. 778). De
doctrina christiana, 1. I, c. 14, n. 13 (P. L., 34,24). Confessioni:
«Non enim tenebam Jesum, humilis humilem». In Joannem, tract., 2,
n. 4; tract. 25, n. 16 (P. L., 35, 1390-1391 e 1604). De Trinitate,
1. IV, c. 2, n. 4 (P. L., 42, 889); 1. VIII, c. 5, n. 7 (col. 952). De
agone christiano, c. 11, n. 12 (P. L., 40, 297); de Div. Quaest.
83, q. 69, n. 9 (col. 79). S. LEONE, De Ascensione Domini, sermo
2, c. 1: «Sacramentum salutis nostrae… per dispensationem humilitatis
impletum est» (P. L., 54, 397 A). S. GREGORIO, Moralia in Job., 1.
II, c. 35, n. 58: «Dum ipse humilitatem carnis suscepit, in se credentibus vota
humulitatis infundit» loc. Cit., p. 224). Cfr. P. ADNÉS, L’Umiltà,
virtù specificamente cristiana secondo S. Agostino, nella Revue d’ascétique et
de mystique, 1952. E. BERGSON ha saputo parlare della «umiltà divina»: Les
deux Sources…, p. 249.
[5] CELSO, Discorso
verace, I (in ORIGENE, Contra Celsum). 1. III, c. 44; cfr.
c. 55 e 60. GOETHE, lettera dell'11 marzo 1832: «massa limitata, pronta a
curvarsi e a lasciarsi dominare».
[12] Confessioni, 1.
VI, c. 4, n. 5: «Confundebar et convertebar et gaudebam, Deus meus, quod
Ecclesia, tua unica, corpus Unici tui, in qua mihi nomen Christi infanti est
inditum, non saperet infantiles nugas».
[13] ANDRÉ MALRAUX, La Monnaie de l'Absolu, p.
160.
[16] NEWMAN, Sermone
sul Cristo nascosto al mondo (trad., franc. di PIERRE LEYRIS, Cardinal
Newman, le Christ, 1943, p. 189).
[17] Cfr. E.
KAESERMANN, citato da C. SPICQ, l'Epître aux Hébreux (1952),
p. 277: Questa Epistola «non conosce cristianesimo privato, e la fede
esattamente come l'obbedienza, sono caratteristiche della comunità in quanto
tale».
[19] I
Petr., I, 22: «in fraternitatis amore simplici»; II, 17:
«Fraternitatem diligite»; III, 8: «fraternitatis amatores». I Thess., IV,
9. b) S. AMBROGIO, in Psalm. 118, serm. 8, n. 54 (P. L., 15, 1317
C-D).
[20] Lettera
ai Corinti, c. XVI.
[21] PASCAL, Pensieri,
(p. 267).
[26] NEWMAN,
lettere a Coleridge (16 novembre 1844), a Keble (21 nov.), a sua sorella
Jennina (15 marzo 1845). Cfr. LOUIS BOUYER, Newman pp.
298-314.
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