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martedì 14 settembre 2021

LA CROCE E LA TENTAZIONE DELLA MONDANITA' SPIRITUALE / Festa dell'Esaltazione della Croce, 14 settembre.

 



Festa dell’Esaltazione della Croce

Un rischio sottile secondo papa Francesco

La “mondanità spirituale”

Avevo cominciato a scrivere sulle letture di oggi e credo che sia molto importante comprendere il valore del serpente di bronzo innalzato da Mosè e ciò che Gesù innalzato sulla croce vi aggiunge. Ma mi sono imbattuto in testi di Padre De Lubac, citato molto spesso da papa Francesco anche di recente, a proposito della “mondanità spirituale” e anche questo mi sembra un commento molto appropriato per la festa di oggi. Riprendo dal sito della parrocchia di san Simpliciano  (https://www.sansimpliciano.it › docs › doc1299)

De Lubac, stesso d’altra parte, rimanda ad una fonte precedente che già aveva fatto uso di quella espressione: Dom Anscar Vonier (1875-1938), benedettino, che in un saggio del 1935, “Lo Spirito e lo sposa” (trad. it. Firenze 1949), usava appunto l’espressione mondanità spirituale per definire «un atteggiamento che si presenta praticamente come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale, nonché spirituale, non è la gloria del Signore, ma l’uomo e la sua perfezione. Un atteggiamento radicalmente antropocentrico; ecco la mondanità dello spirito. Essa diverrebbe imperdonabile nel caso – supponiamolo possibile – di un uomo che sia dotato di tutte le perfezioni spirituali, ma che non le riferisca a Dio». Le espressioni di Vonier sopra riportate, espressamente citate da De Lubac, sono da lui così commentate:

Se questa mondanità spirituale dovesse invadere la Chiesa e lavorare per corromperla attaccandosi al suo principio stesso, sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale. Peggio ancora di quella lebbra che, in certi momenti della storia, sfigurò così crudelmente la Sposa diletta, quando la religione pareva introdurre lo scandalo nel “santuario stesso e, rappresentata da un papa libertino, nascondeva il volto di Gesù sotto pietre preziose, sotto belletti ed orpelli”. Nessuno di noi è totalmente sicuro da questo male. Un umanesimo sottile, avversario del Dio vivente, e non meno nemico dell’uomo, segretamente, può insinuarsi in noi attraverso mille vie tortuose. La curvitas originale non è mai in noi definitivamente raddrizzata. Il “peccato contro lo Spirito” è sempre possibile. Ma nessuno di noi si identifica con la Chiesa. Nessun nostro tradimento può consegnare al Nemico la Città che il Signore stesso custodisce. (H. DE LUBAC, Meditazioni sulla Chiesa, Milano 1955, pp. 446-447)

Papa Francesco riprende dunque, e molto insiste nella denuncia di questo difetto della «mondanità spirituale», che egli attribuisce a molti operatori pastorali. Esso è un difetto nascosto: «si nasconde – egli dice – dietro apparenze di religiosità e persino di amore per la Chiesa»; e tuttavia la sua sostanza «consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale». La gloria per sé stessi è cercata, certo, in maniera ‘spirituale’, esibendo cioè segni di grande religiosità e amore per la Chiesa. A due riprese il Papa sottolinea, quasi con stupore, come difetti anche consistenti nel ministero del Vangelo possano accompagnarsi alla persistenza della preghiera.

 

Ho trovato poi sul sito gliscritti.it, fonte sempre molto interessante, altre citazioni di De Lubac  tratte ugualmente da “Meditazioni sulla Chiesa”.

C'è un'altra tentazione. Anche questa non è tentazione di anime volgari; è la più grave di tutte. Essa si insinua muovendo da una costatazione che era già stata fatta da S. Paolo: «Vedete, fratelli, - scriveva S. Paolo ai cristiani di Corinto - non ci sono molti saggi, molti potenti, molti nobili in mezzo a voi»[1]. I saggi, i potenti ed i nobili possono anche essere venuti in seguito, ma la riflessione dell'Apostolo conserva intatta la sua verità profonda e multiforme. Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l'aspetto della schiava. Esiste quaggiù in «forma di serva»[2]E non è soltanto la saggezza del mondo, nella sua accezione più materiale che le manca: è anche, almeno apparentemente, la saggezza dello spirito.

Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri, che si sentono particolarmente a casa loro e che impongono ovunque il loro tonoI suoi più splendidi progressi non fanno che accentuare questo carattere nella maggioranza dei suoi membri, come nel tessuto quotidiano della sua esistenza. È difficile, o piuttosto, assolutamente impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione[3], riconoscere in questo fatto il compimento della Kenosi salvifica e la traccia adorabile della «umiltà di Dio»[4].

Da quando esiste, la Chiesa si è sempre attirata il disprezzo di una élite. Filosofi o spirituali, molti spiriti superiori, preoccupati d'una vita profonda, le rifiutano la loro adesione. Alcuni le sono apertamente ostili. Come Celso essi sono disgustati da «questa accozzaglia di gente semplice»[5].

Una stretta appartenenza alla Chiesa cattolica, si dice, ostacolerebbe la libera ricerca, frenerebbe l'audacia dello slancio spirituale, e condurrebbe ad un rigido inquadramento e ad una volgare promiscuità. Una inchiesta imparziale può provare che la sapienza che essa propone e che essa infonde non consiste in un ammasso di «puerili futilità», come credeva Sant'Agostino prima che le prediche di Sant'Ambrogio gli avessero aperto gli occhi[12]Essa può inoltre portare a scoprire la solidità del suo dogma, può fare intravvedere la profondità dei suoi misteri e della interpretazione ortodossa datane dai grandi dottori. Essa può, infine, fare ammirare gli splendori dell'arte e la ricchezza della cultura che, almeno in certe epoche, ne illuminarono il volto umano. Tutto questo non muta l'evidente volgarità del tessuto connettivo a cui ogni esistenza cattolica deve adattarsi giorno per giorno e nel quale anzi deve inserirsi.

Davanti alle pitture delle catacombe romane, prima espressione figurata della Parola che risuonò nel Cristo, André Malreaux esclama: «Quale distanza tra queste povere figure e quella voce profonda!»[13].

Sinceramente, se la consideriamo con uno sguardo realista, non nel cielo delle pure idee ma nella sua realtà concreta, «che cosa è la Chiesa se non, per così dire, un corpo di umiliazione che provoca, in coloro che non vivono di fede, l'insulto, l'empietà, l'avversione o quanto meno un indulgente riserbo?»[16].

Ora è proprio questo, è tutto questo complesso che si tratta non soltanto di subire in quello che ha di fatale, - e neppure, certo, di canonizzare in blocco - ma di assumere con totale lealtà. Non esiste un «cristianesimo privato»[17].

Per amare la Chiesa è necessario, vincendo ogni ripugnanza, amarla nella sua massiccia tradizione ed immergersi nella sua vita come il grano affonda nella terra.  Bisogna spingere fino al limite la logica della Incarnazione, per cui la divinità si adegua alla debolezza umana. Per possedere il tesoro bisogna avere il «vaso d'argilla» che lo contiene[18], fuori del quale esso si sperde. Bisogna accettare quello che S. Paolo, che conosceva le tentazioni avversarie, chiamava «la semplicità nel Cristo»

Bisogna far parte, senza alcuna riserva, della «plebe di Dio». In altri termini, la necessità di essere umile per aderire a Gesù Cristo comporta la necessità di essere umile per cercarlo nella sua Chiesa e la necessità di unire, alla sottomissione della intelligenza, «l'amore della fraternità»[19]. Soltanto colui che rimane unito a tutte le membra del suo Corpo, partecipa del Cristo. Il ricco, il forte; il saggio, non dicono al povero, al debole, all'ignorante: tu non mi sei necessario... Sa che fa parte del Corpo di Cristo che è la Chiesa, e deve sapere che quelli che nella Chiesa appaiono deboli, poveri, ignoranti, devono essere tenuti in maggior onore e circondati di migliori cure, precisamente come i peccatori. In questo modo potrà dire di se stesso: Io ho il timore di Dio.

È quanto già scriveva San Clemente Romano, uno dei successori di San Pietro, cogliendo, di colpo, il senso profondo della Chiesa: «Il Cristo appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di sopra del gregge»[20].

Nella Chiesa, agli occhi dell’uomo superiore, tutto è basso. Ma «la forza si accorda con questa bassezza»[21]Si accorda, anzi, soltanto con essa. Le forme ideali di cui l’uomo superiore si compiace, gli sembrano così alte e così pure soltanto perché sono opera sua.

Noi sappiamo, purtroppo, che la professione di cattolico, e di cattolico militante, non conferisce automaticamente la santità; anzi, dobbiamo ammettere che tra noi, anche nei migliori, nei più puri, nei più ferventi, vi sono molte miserie umane che spesso intralciano l’opera dello Spirito Santo. Sappiamo però anche che il più piccolo dei nostri santi è più libero, interiormente, che il più grande maestro di sapienza.

Nella sua apparente bassezza, la Chiesa è il sacramento, cioè il segno veridico ed efficace di queste «Profondità di Dio».

Quando, sollecitato da una logica interiore che non era una semplice «logica libresca», Newman venne ad inginocchiarsi ai piedi del Padre Domenico Barberi, per chiedergli di riceverlo nella Chiesa, egli non sacrificava solamente una posizione, abitudini care, amicizie scelte, una dimora spirituale, dolorosamente ma sempre teneramente amata, una fama già largamente consolidata. Le condizioni dei tempi erano delle più sfavorevoli. Era una sera dell'autunno 1845, verso la fine del pontificato di Gregorio XVI. «Il cattolicesimo appariva ovunque come un vinto della vita, tanto più pietoso in quanto si trascinava ancora dietro tanti resti derisori di una recente grandezza.

Qualche anno più tardi egli dirà: La nostra epoca sembra piuttosto [somigliare] a quell'età primitiva in cui la Chiesa era apparentemente così umile nella nobiltà, nella scienza, nella ricchezza, nell'eredità del Signore; quando noi facevamo le nostre reclute soprattutto tra i ranghi più negletti della società, quando eravamo poveri, e ignoranti, disprezzati e odiati dai grandi e dai filosofi, come membri d'un'associazione grossolana, stupida e ostinata; quell'età durante la quale la storia non fa menzione di nessun santo che abbia fatto epoca con un'idea grandiosa, quali poi S. Tommaso d'Aquino o S. Ignazio di Loyola, ma dove i più abili scrivani cosiddetti cristiani, appartenevano a scuole eretiche.

Nei cattolici romani Newman non trovava nulla d'attraente. «Io non ho simpatia per loro, confessava. Da loro attendo ben poco. Unendomi a loro faccio di me stesso un paria. Mi incammino verso il deserto». E non prevedeva ancora, allora, tutte le contrarietà che lo avrebbero amareggiato nella traversata di questo vasto deserto! Ma per la sua anima fedele tale passo era una «necessità», e mai, in seguito, ebbe a rimpiangerlo per un solo istante[26].

[1] I Cor., I, 26.

[2] Philipp., II, 7.

[4] S. AGOSTINO, Enchiridion, c. 108; «…ut humana superbia per humilitatem Dei argueretur ac sanaretur» (P. L., 40, 283). Sermo 184, n. 1: «Teneant ergo humiles humilitatem Dei» Sermo 51, 4-5. (P. L., 38, 336); Sermo 117, n. 17 (P. L., 38, 671); Sermo 123, n. 1 (col. 684); Sermo 142, n. 2 (col. 778). De doctrina christiana, 1. I, c. 14, n. 13 (P. L., 34,24). Confessioni: «Non enim tenebam Jesum, humilis humilem». In Joannem, tract., 2, n. 4; tract. 25, n. 16 (P. L., 35, 1390-1391 e 1604). De Trinitate, 1. IV, c. 2, n. 4 (P. L., 42, 889); 1. VIII, c. 5, n. 7 (col. 952). De agone christiano, c. 11, n. 12 (P. L., 40, 297); de Div. Quaest. 83, q. 69, n. 9 (col. 79). S. LEONE, De Ascensione Dominisermo 2, c. 1: «Sacramentum salutis nostrae… per dispensationem humilitatis impletum est» (P. L., 54, 397 A). S. GREGORIO, Moralia in Job., 1. II, c. 35, n. 58: «Dum ipse humilitatem carnis suscepit, in se credentibus vota humulitatis infundit» loc. Cit., p. 224). Cfr. P. ADNÉS, L’Umiltà, virtù specificamente cristiana secondo S. Agostino, nella Revue d’ascétique et de mystique, 1952. E. BERGSON ha saputo parlare della «umiltà divina»: Les deux Sources…, p. 249.

[5] CELSO, Discorso verace, I (in ORIGENE, Contra Celsum). 1. III, c. 44; cfr. c. 55 e 60. GOETHE, lettera dell'11 marzo 1832: «massa limitata, pronta a curvarsi e a lasciarsi dominare».

[12] Confessioni, 1. VI, c. 4, n. 5: «Confundebar et convertebar et gaudebam, Deus meus, quod Ecclesia, tua unica, corpus Unici tui, in qua mihi nomen Christi infanti est inditum, non saperet infantiles nugas».

[13] ANDRÉ MALRAUX, La Monnaie de l'Absolu, p. 160.

[16] NEWMAN, Sermone sul Cristo nascosto al mondo (trad., franc. di PIERRE LEYRIS, Cardinal Newman, le Christ, 1943, p. 189).

[17] Cfr. E. KAESERMANN, citato da C. SPICQ, l'Epître aux Hébreux (1952), p. 277: Questa Epistola «non conosce cristianesimo privato, e la fede esattamente come l'obbedienza, sono caratteristiche della comunità in quanto tale».

[19] I Petr., I, 22: «in fraternitatis amore simplici»; II, 17: «Fraternitatem diligite»; III, 8: «fraternitatis amatores». I Thess., IV, 9. b) S. AMBROGIO, in Psalm. 118, serm. 8, n. 54 (P. L., 15, 1317 C-D).

[20] Lettera ai Corinti, c. XVI.

[21] PASCAL, Pensieri, (p. 267).

[26] NEWMAN, lettere a Coleridge (16 novembre 1844), a Keble (21 nov.), a sua sorella Jennina (15 marzo 1845). Cfr. LOUIS BOUYER, Newman pp. 298-314.

 

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