L'altro giorno, nel post "La Bibbia e la Politica" (martedì 22 settembre 2020) ho ricordato che, per la Chiesa, il principio di sussidiarietà è il migliore per lo sviluppo armonioso di una Società. Ho spiegato anche brevemente in che cosa consiste. Papa Francesco ha ripreso questo concetto ieri all'Udienza generale, spiegandolo molto meglio. E conviene che tutti, specialmente i cristiani, leggano il testo dell'Udienza di ieri.
PAPA FRANCESCO
UDIENZA
GENERALE
Cortile San
Damaso
Mercoledì, 23 settembre 2020
Catechesi “Guarire il mondo”: 8. Sussidiarietà
e virtù della speranza
Cari fratelli e sorelle, sembra che il
tempo non è tanto buono, ma vi dico buongiorno lo stesso!
Per uscire migliori da una crisi come
quella attuale, che è una crisi sanitaria e al tempo stesso una crisi sociale,
politica ed economica, ognuno di noi è chiamato ad assumersi la sua parte di
responsabilità cioè condividere le responsabilità. Dobbiamo rispondere non solo
come persone singole, ma anche a partire dal nostro gruppo di appartenenza, dal
ruolo che abbiamo nella società, dai nostri principi e, se siamo credenti,
dalla fede in Dio. Spesso, però, molte persone non possono partecipare alla
ricostruzione del bene comune perché sono emarginate, sono escluse o ignorate;
certi gruppi sociali non riescono a contribuirvi perché soffocati
economicamente o politicamente. In alcune società, tante persone non sono
libere di esprimere la propria fede e i propri valori, le proprie idee: se le
esprimono vanno in carcere. Altrove, specialmente nel mondo occidentale, molti
auto-reprimono le proprie convinzioni etiche o religiose. Ma così non si può
uscire dalla crisi, o comunque non si può uscirne migliori. Usciremo in peggio.
Affinché tutti possiamo partecipare alla
cura e alla rigenerazione dei nostri popoli, è giusto che ognuno abbia le
risorse adeguate per farlo (cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa [CDSC], 186). Dopo la grande depressione economica del
1929, Papa Pio XI spiegò quanto fosse importante
per una vera ricostruzione il principio di sussidiarietà (cfr
Enc. Quadragesimo anno, 79-80). Tale principio
ha un doppio dinamismo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto.
Forse non capiamo cosa significa questo, ma è un principio sociale che ci fa
più uniti.
Da un lato, e soprattutto in tempi di
cambiamento, quando i singoli individui, le famiglie, le piccole associazioni o
le comunità locali non sono in grado di raggiungere gli obiettivi primari,
allora è giusto che intervengano i livelli più alti del corpo sociale, come lo
Stato, per fornire le risorse necessarie ad andare avanti. Ad esempio, a causa
del lockdown per il coronavirus, molte persone, famiglie e
attività economiche si sono trovate e ancora si trovano in grave difficoltà,
perciò le istituzioni pubbliche cercano di aiutare con appropriati interventi
sociali, economici, sanitari: questa è la loro funzione, quello che devono
fare.
Dall’altro lato, però, i vertici della
società devono rispettare e promuovere i livelli intermedi o minori. Infatti,
il contributo degli individui, delle famiglie, delle associazioni, delle
imprese, di tutti i corpi intermedi e anche delle Chiese è decisivo. Questi,
con le proprie risorse culturali, religiose, economiche o di partecipazione
civica, rivitalizzano e rafforzano il corpo sociale (cfr CDSC, 185). Cioè, c’è una collaborazione dall’alto in
basso, dallo Stato centrale al popolo e dal basso in alto: delle formazioni del
popolo in alto. E questo è proprio l’esercizio del principio di sussidiarietà.
Ciascuno deve avere la possibilità di assumere la propria responsabilità nei processi di guarigione della società di cui fa parte. Quando si attiva qualche progetto che riguarda direttamente o indirettamente determinati gruppi sociali, questi non possono essere lasciati fuori dalla partecipazione. Per esempio: “Cosa fai tu? - Io vado a lavorare per i poveri – Bello, e cosa fai? – Io insegno ai poveri, io dico ai poveri quello che devono fare – No, questo non va, il primo passo è lasciare che i poveri dicano a te come vivono, di cosa hanno bisogno: Bisogna lasciar parlare tutti! E così funziona il principio di sussidiarietà. Non possiamo lasciare fuori della partecipazione questa gente; la loro saggezza, la saggezza dei gruppi più umili non può essere messa da parte (cfr Esort. ap. postsin Querida Amazonia [QA], 32; Enc. Laudato si’, 63). Purtroppo, questa ingiustizia si verifica spesso là dove si concentrano grandi interessi economici o geopolitici, come ad esempio certe attività estrattive in alcune zone del pianeta (cfr QA, 9.14). Le voci dei popoli indigeni, le loro culture e visioni del mondo non vengono prese in considerazione. Oggi, questa mancanza di rispetto del principio di sussidiarietà si è diffusa come un virus. Pensiamo alle grandi misure di aiuti finanziari attuate dagli Stati. Si ascoltano di più le grandi compagnie finanziarie anziché la gente o coloro che muovono l’economia reale. Si ascoltano di più le compagnie multinazionali che i movimenti sociali. Volendo dire ciò con il linguaggio della gente comune: si ascoltano più i potenti che i deboli e questo non è il cammino, non è il cammino umano, non è il cammino che ci ha insegnato Gesù, non è attuare il principio di sussidiarietà. Così non permettiamo alle persone di essere «protagoniste del proprio riscatto».[1] Nell’inconscio collettivo di alcuni politici o di alcuni sindacalisti c’è questo motto: tutto per il popolo, niente con il popolo. Dall’alto in basso ma senza ascoltare la saggezza del popolo, senza far attuare questa saggezza nel risolvere dei problemi, in questo caso nell’uscire dalla crisi. O pensiamo anche al modo di curare il virus: si ascoltano più le grandi compagnie farmaceutiche che gli operatori sanitari, impegnati in prima linea negli ospedali o nei campi-profughi. Questa non è una strada buona. Tutti vanno ascoltati, quelli che sono in alto e quelli che sono in basso, tutti.
Per uscire migliori da una crisi,
il principio di sussidiarietà dev’essere attuato, rispettando
l’autonomia e la capacità di iniziativa di tutti, specialmente degli ultimi.
Tutte le parti di un corpo sono necessarie e, come dice San Paolo, quelle parti
che potrebbero sembrare più deboli e meno importanti, in realtà sono le più
necessarie (cfr 1 Cor 12,22). Alla luce di questa immagine,
possiamo dire che il principio di sussidiarietà consente ad ognuno di assumere
il proprio ruolo per la cura e il destino della società. Attuarlo, attuare il
principio di sussidiarietà dà speranza, dà speranza in un
futuro più sano e giusto; e questo futuro lo costruiamo insieme, aspirando alle
cose più grandi, ampliando i nostri orizzonti. [2] O
insieme o non funziona. O lavoriamo insieme per uscire dalla crisi, a tutti i
livelli della società, o non ne usciremo mai. Uscire dalla crisi non significa
dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino un po’
più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo
fanno tutti, tutte le persone che formano il popolo. Tutte le professioni,
tutti. E tutti insieme, tutti in comunità. Se non lo fanno tutti il risultato
sarà negativo.
In una catechesi precedente abbiamo visto
come la solidarietà è la via per uscire dalla crisi: ci unisce
e ci permette di trovare proposte solide per un mondo più sano. Ma questo
cammino di solidarietà ha bisogno della sussidiarietà. Qualcuno potrà
dirmi: “Ma padre oggi sta parlando con parole difficili!”. Ma per questo cerco
di spiegare cosa significa. Solidali, perché andiamo sulla strada della
sussidiarietà. Infatti, non c’è vera solidarietà senza partecipazione sociale,
senza il contributo dei corpi intermedi: delle famiglie, delle associazioni,
delle cooperative, delle piccole imprese, delle espressioni della società
civile. Tutti devono contribuire, tutti. Tale partecipazione aiuta a prevenire
e correggere certi aspetti negativi della globalizzazione e dell’azione degli
Stati, come accade anche nella cura della gente colpita dalla pandemia. Questi
contributi “dal basso” vanno incentivati. Ma quanto è bello vedere il lavoro
dei volontari nella crisi. I volontari che vengono da tutte le parti sociali,
volontari che vengono dalle famiglie più benestanti e che vengono dalle
famiglie più povere. Ma tutti, tutti insieme per uscire. Questo è solidarietà e
questo è principio di sussidiarietà.
Durante il lockdown è
nato spontaneo il gesto dell’applauso per i medici e gli infermieri e le
infermiere come segno di incoraggiamento e di speranza. Tanti hanno rischiato
la vita e tanti hanno dato la vita. Estendiamo questo applauso ad ogni membro
del corpo sociale, a tutti, a ognuno, per il suo prezioso contributo, per
quanto piccolo. “Ma cosa potrà fare quello di là?. – Ascoltalo, dagli spazio
per lavorare, consultalo”. Applaudiamo gli “scartati”, quelli che questa
cultura qualifica “scartati”, questa cultura dello scarto, cioè applaudiamo gli
anziani, i bambini, le persone con disabilità, applaudiamo i lavoratori, tutti
quelli che si mettono al servizio. Tutti collaborano per uscire dalla crisi. Ma
non fermiamoci solo all’applauso! La speranza è audace, e
allora incoraggiamoci a sognare in grande. Fratelli e sorelle, impariamo a
sognare in grande! Non abbiamo paura di sognare in grande, cercando gli ideali
di giustizia e di amore sociale che nascono dalla speranza. Non proviamo a
ricostruire il passato, il passato è passato, ci aspettano cose nuove. Il Signore
ha promesso: “Io farò nuove tutte le cose”. Incoraggiamoci a sognare in grande
cercando questi ideali, non proviamo a ricostruire il passato, soprattutto
quello che era iniquo e già malato, che ho nominato già come ingiustizie.
Costruiamo un futuro dove la dimensione locale e quella globale si
arricchiscano mutualmente, - ognuno può dare il suo, ognuno deve dare del suo,
la sua cultura, la sua filosofia, il suo modo di pensare -, dove la bellezza e
la ricchezza dei gruppi minori anche dei gruppi scartati possa fiorire perché
pure lì c’è bellezza, e dove chi ha di più si impegni a servire e a dare di più
a chi ha di meno.
[1] Messaggio per la 106.ma Giornata Mondiale del Migrante e
del Rifugiato 2020 (13 maggio 2020).
[2] Cfr Discorso ai giovani del Centro Culturale Padre Félix
Varela, L’Avana – Cuba, 20 settembre 2015.
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