66. La Chiesa, mentre annuncia sempre di nuovo il kerygma, deve
crescere in Amazzonia. Per questo, riconfigura sempre la propria identità
nell’ascolto e nel dialogo con le persone, le realtà e le storie del suo
territorio. In tal modo, potrà svilupparsi sempre di più un necessario processo
di inculturazione, che non disprezza nulla di quanto di buono già esiste nelle
culture amazzoniche, ma lo raccoglie e lo porta a pienezza alla luce del
Vangelo.[84] E
nemmeno disprezza la ricchezza di sapienza cristiana trasmessa lungo i secoli,
come se si pretendesse di ignorare la storia in cui Dio ha operato in molti
modi, perché la Chiesa ha un volto pluriforme «non solo da una prospettiva
spaziale [...], ma anche dalla sua realtà temporale».[85] Si
tratta dell’autentica Tradizione della Chiesa, che non è un deposito statico né
un pezzo da museo, ma la radice di un albero che cresce.[86] È
la millenaria Tradizione che testimonia l’azione divina nel suo Popolo e «ha la
missione di mantenere vivo il fuoco più che di conservare le ceneri».[87]
67. San Giovanni Paolo II ha insegnato che,
nel presentare la sua proposta evangelica, «la Chiesa non pretende negare l’autonomia
della cultura. Anzi al contrario, nutre per essa il maggior rispetto», perché
la cultura «non è solo soggetto di redenzione e di elevazione; ma può essere
anche fautrice di mediazione e di collaborazione».[88] Rivolgendosi
agli indigeni del Continente americano ha ricordato che «una fede che non
diviene cultura è una fede non pienamente accolta, né totalmente pensata né
fedelmente vissuta».[89] Le
sfide delle culture invitano la Chiesa a «un atteggiamento di vigile senso
critico, ma anche di attenzione fiduciosa».[90]
68. Si può riprendere qui ciò che ho affermato nell’Esortazione Evangelii gaudium a proposito dell’inculturazione,
sulla base della convinzione che «la grazia suppone la cultura, e il dono di
Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve».[91] Avvertiamo
che ciò implica un doppio movimento. Da un lato, una dinamica di fecondazione
che consente di esprimere il Vangelo in un luogo, poiché «quando una comunità
accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con
la forza trasformante del Vangelo».[92] D’altra
parte, la Chiesa stessa vive un percorso ricettivo, che la arricchisce di ciò
che lo Spirito aveva già misteriosamente seminato in quella cultura. In tal
modo, «lo Spirito Santo abbellisce la Chiesa, mostrandole nuovi aspetti della
Rivelazione e regalandole un nuovo volto».[93] Si
tratta, in definitiva, di permettere e incoraggiare che l’annuncio del Vangelo
inesauribile, comunicato «con categorie proprie della cultura in cui è
annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura».[94]
69. Pertanto, «come possiamo vedere nella storia della Chiesa, il
cristianesimo non dispone di un unico modello culturale»[95] e
«non renderebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un
cristianesimo monoculturale e monocorde».[96] Tuttavia,
il rischio per gli evangelizzatori che arrivano in un luogo è credere di dover
comunicare non solo il Vangelo ma anche la cultura in cui essi sono cresciuti,
dimenticando che non si tratta di «imporre una determinata forma culturale, per
quanto bella e antica».[97] Occorre
accettare con coraggio la novità dello Spirito, capace di creare sempre
qualcosa di nuovo con l’inesauribile tesoro di Gesù Cristo, perché
«l’inculturazione impegna la Chiesa su un cammino difficile ma necessario».[98] È
vero che «benché questi processi siano sempre lenti, a volte la paura ci
paralizza troppo» e finiamo per essere «spettatori di una sterile stagnazione
della Chiesa».[99] Non
abbiamo timore, non tagliamo le ali allo Spirito Santo!
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