Papa Francesco ha fatto un importante discorso ai vertici dei Vescovi italiani in occasione dei sessant'anni dell’Ufficio Catechistico Nazionale. Vi troviamo riflessioni molto confortanti da prendere assolutamente sul serio: creatività sinodale (insieme) nella Chiesa, col suo linguaggio, nella fedeltà al Kerygma. Stare nella Chiesa significa accettare in toto il Concilio Vaticano II. Mi ha colpito quando ho conosciuto il Cammino Neocatecumenale che si fosse conformato in tutto al Concilio. Quando il Papa chiede osservanza del Concilio perché è Magistero della Chiesa egli dice: “Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il Concilio non va negoziato, … Per favore, nessuna concessione!”
Ma ci sono tante altre ricchezze in questo messaggio
che vale la pena meditare. Buona lettura!
DISCORSO
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO PROMOSSO DALL'UFFICIO CATECHISTICO NAZIONALE DELLA
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Sala
Clementina Sabato, 30 gennaio 2021
Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto e ringrazio il Card. Bassetti
per le sue cortesi parole. Ha ripreso le forze, grazie! Saluto il Segretario
Generale, Mons. Russo, e tutti voi, che sostenete l’impegno della Chiesa
italiana nell’ambito della catechesi. Sono contento di condividere con voi il
ricordo del 60° anniversario della nascita dell’Ufficio Catechistico Nazionale.
Istituito ancora prima della configurazione della Conferenza episcopale, esso è
stato strumento indispensabile per il rinnovamento catechetico dopo il Concilio
Vaticano II. Questa ricorrenza è un’occasione preziosa per fare memoria,
rendere grazie dei doni ricevuti e rinnovare lo spirito dell’annuncio. A questo
scopo, vorrei condividere tre punti che spero possano aiutarvi nei lavori dei
prossimi anni.
Il primo: catechesi e kerygma.
La catechesi è l’eco della Parola di Dio. Nella trasmissione della fede la
Scrittura – come ricorda il Documento di Base – è «il Libro; non un
sussidio, fosse pure il primo» (CEI, Il rinnovamento della catechesi,
n. 107). La catechesi è dunque l’onda lunga della Parola di Dio per trasmettere
nella vita la gioia del Vangelo. Grazie alla narrazione della catechesi, la
Sacra Scrittura diventa “l’ambiente” in cui sentirsi parte della medesima
storia di salvezza, incontrando i primi testimoni della fede. La catechesi è
prendere per mano e accompagnare in questa storia. Suscita un cammino, in cui
ciascuno trova un ritmo proprio, perché la vita cristiana non appiattisce né
omologa, ma valorizza l’unicità di ogni figlio di Dio. La catechesi è anche un
percorso mistagogico, che avanza in costante dialogo con la liturgia, ambito in
cui risplendono simboli che, senza imporsi, parlano alla vita e la segnano con
l’impronta della grazia.
Il cuore del mistero è il kerygma,
e il kerygma è una persona: Gesù Cristo. La catechesi è uno
spazio privilegiato per favorire l’incontro personale con Lui.
Perciò va intessuta di relazioni personali. Non c’è vera catechesi
senza la testimonianza di uomini e donne in carne e ossa. Chi di noi non
ricorda almeno uno dei suoi catechisti? Io lo ricordo: ricordo la suora che mi
ha preparato alla prima Comunione e mi ha fatto tanto bene. I primi
protagonisti della catechesi sono loro, messaggeri del Vangelo, spesso laici,
che si mettono in gioco con generosità per condividere la bellezza di aver
incontrato Gesù. «Chi è il catechista? È colui che custodisce e alimenta la
memoria di Dio; la custodisce in sé stesso – è un “memorioso” della storia
della salvezza – e la sa risvegliare negli altri. È un cristiano che mette
questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare
di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà» (Omelia per la giornata dei catechisti
nell’Anno della Fede,
29 settembre 2013).
Per fare questo, è bene ricordare «alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa – tu sei amato, tu sei amata, questo è il primo, questa è la porta –, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà – come faceva Gesù –, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, e un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio – e quali sono queste disposizioni che ogni catechista deve avere? –: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 165). Gesù aveva questo. È l’intera geografia dell’umanità che il kerygma, bussola infallibile della fede, aiuta a esplorare.
E su questo punto – il catechista –
riprendo una cosa che va detta anche ai genitori, ai nonni: la fede va
trasmessa “in dialetto”. Un catechista che non sa spiegare nel “dialetto” dei
giovani, dei bambini, di coloro che… Ma con il dialetto non mi riferisco a
quello linguistico, di cui l’Italia è tanto ricca, no, al dialetto della
vicinanza, al dialetto che possa capire, al dialetto dell’intimità. A me tocca
tanto quel passo dei Maccabei, dei sette fratelli (2 Mac 7). Per
due o tre volte si dice che la mamma li sosteneva parlando loro in dialetto
[“nella lingua dei padri”]. È importante: la vera fede va trasmessa in
dialetto. I catechisti devono imparare a trasmetterla in dialetto, cioè quella
lingua che viene dal cuore, che è nata, che è proprio la più familiare, la più
vicina a tutti. Se non c’è il dialetto, la fede non è trasmessa totalmente e
bene.
Il secondo punto: catechesi e
futuro. L’anno scorso ricorreva il 50° anniversario del documento Il
rinnovamento della catechesi, con cui la Conferenza Episcopale Italiana
recepiva le indicazioni del Concilio. Al riguardo, faccio mie le parole di
San Paolo VI, rivolte alla prima Assemblea Generale della CEI dopo il Vaticano II: «Dobbiamo guardare al
Concilio con riconoscenza a Dio e con fiducia per l’avvenire della Chiesa; esso
sarà il grande catechismo dei tempi nuovi» (23 giugno 1966). E tornando sul tema, in occasione del primo Congresso Catechistico
Internazionale, egli aggiungeva: «È un compito che incessantemente
rinasce e incessantemente si rinnova per la catechesi l’intendere questi
problemi che salgono dal cuore dell’uomo, per ricondurli alla loro sorgente
nascosta: il dono dell’amore che crea e che salva» (25 settembre 1971). Pertanto, la catechesi ispirata dal Concilio è
continuamente in ascolto del cuore dell’uomo, sempre con l’orecchio teso,
sempre attenta a rinnovarsi.
Questo è magistero: il Concilio è
magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e
se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non
stai con la Chiesa. Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il
Concilio non va negoziato, per avere più di questi… No, il Concilio è così. E
questo problema che noi stiamo vivendo, della selettività rispetto al Concilio,
si è ripetuto lungo la storia con altri Concili. A me fa pensare tanto un gruppo
di vescovi che, dopo il Vaticano I, sono andati via, un gruppo di laici, dei
gruppi, per continuare la “vera dottrina” che non era quella del Vaticano I:
“Noi siamo i cattolici veri”. Oggi ordinano donne. L’atteggiamento più severo,
per custodire la fede senza il magistero della Chiesa, ti porta alla rovina.
Per favore, nessuna concessione a coloro che cercano di presentare una
catechesi che non sia concorde al magistero della Chiesa.
Come nel dopo-Concilio la Chiesa italiana
è stata pronta e capace nell’accogliere i segni e la sensibilità dei tempi,
così anche oggi è chiamata ad offrire una catechesi rinnovata, che ispiri ogni
ambito della pastorale: carità, liturgia, famiglia, cultura, vita sociale,
economia... Dalla radice della Parola di Dio, attraverso il tronco della
sapienza pastorale, fioriscono approcci fruttuosi ai vari aspetti della vita.
La catechesi è così un’avventura straordinaria: come “avanguardia della Chiesa”
ha il compito di leggere i segni dei tempi e di accogliere le sfide presenti e
future. Non dobbiamo aver paura di parlare il linguaggio delle donne e degli
uomini di oggi. Di parlare il linguaggio fuori dalla Chiesa, sì, di questo
dobbiamo avere paura. Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio della
gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano, le
questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non
abbiamo paura. Non dobbiamo aver paura di elaborare strumenti nuovi: negli anni
settanta il Catechismo della Chiesa Italiana fu originale e
apprezzato; anche i tempi attuali richiedono intelligenza e coraggio per
elaborare strumenti aggiornati, che trasmettano all’uomo d’oggi la ricchezza e
la gioia del kerygma, e la ricchezza e la gioia dell’appartenenza
alla Chiesa.
Terzo punto: catechesi e comunità.
In questo anno contrassegnato dall’isolamento e dal senso di solitudine causati
dalla pandemia, più volte si è riflettuto sul senso di appartenenza che sta
alla base di una comunità. Il virus ha scavato nel tessuto vivo dei nostri territori,
soprattutto esistenziali, alimentando timori, sospetti, sfiducia e incertezza.
Ha messo in scacco prassi e abitudini consolidate e così ci provoca a ripensare
il nostro essere comunità. Abbiamo capito, infatti, che non possiamo fare da
soli e che l’unica via per uscire meglio dalle crisi è uscirne insieme –
nessuno si salva da solo, uscirne insieme –, riabbracciando con più convinzione
la comunità in cui viviamo. Perché la comunità non è un agglomerato di singoli,
ma la famiglia in cui integrarsi, il luogo dove prendersi cura gli uni degli
altri, i giovani degli anziani e gli anziani dei giovani, noi di oggi di chi
verrà domani. Solo ritrovando il senso di comunità, ciascuno potrà trovare in
pienezza la propria dignità.
La catechesi e l’annuncio non possono che
porre al centro questa dimensione comunitaria. Non è il momento per strategie
elitarie. La grande comunità: qual è la grande comunità? Il santo popolo fedele
di Dio. Non si può andare avanti fuori del santo popolo fedele di Dio, il quale
– come dice il Concilio – è infallibile in credendo. Sempre con il
santo popolo di Dio. Invece, cercare appartenenze elitarie ti allontana dal
popolo di Dio, forse con formule sofisticate, ma tu perdi quell’appartenenza
alla Chiesa che è il santo popolo fedele di Dio.
Questo è il tempo per essere artigiani di
comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di
comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e
tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi
su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani
delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo
di comunità che dialoghino senza paura con chi ha idee diverse. È il tempo di
comunità che, come il Buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito
dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione. Non dimenticatevi questa
parola: compassione. Quante volte, nel Vangelo, di Gesù si dice: “Ed ebbe
compassione”, “ne ebbe compassione”. Come ho detto al Convegno ecclesiale di
Firenze, desidero una Chiesa «sempre più vicina agli abbandonati, ai
dimenticati, agli imperfetti. […] Una Chiesa lieta col volto di mamma, che
comprende, accompagna, accarezza». Quanto riferivo allora all’umanesimo
cristiano vale anche per la catechesi: essa «afferma radicalmente la dignità di
ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una
fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato
come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria, l’umorismo, anche nel mezzo
di una vita tante volte molto dura» (Discorso al V Convegno nazionale della
Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre
2015).
Ho menzionato il Convegno di Firenze.
Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convengo di Firenze, e
deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità,
diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di
Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso,
riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare.
Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per
quanto fate. Vi invito a continuare a pregare e a pensare con creatività a una
catechesi centrata sul kerygma, che guardi al futuro delle nostre
comunità, perché siano sempre più radicate nel Vangelo, comunità fraterne e
inclusive. Vi benedico, vi accompagno. E voi, per favore, pregate per me, ne ho
bisogno. Grazie!
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