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mercoledì 19 luglio 2023

IL SOFFIO DEL CONCILIO NEL PATTO DELLE CATACOMBE. MONS. LUIGI BETTAZZI.

Luigi Bettazzi  (+ 16 luglio 2023) era l'ultimo padre conciliare italiano vivente.

Nell'indire il Concilio Vaticano II Papa Giovanni XXIII parlava della “Chiesa dei poveri”. Questa frase fu luce per molti. In particolare ispirò Francisco Arguello e anche Carmen Hernandez di cui ricorre questo 19 luglio il settimo anniversario della sua dipartita verso il Padre. Insieme, nel soffio del Concilio hanno potuto fare e proporre un Cammino di Iniziazione Cristiana per adulti in mezzo a poveri che accoglievano la Parola di Dio senza difendersi ma senza nessuna base precedente di tradizione cristiana. Questo rendeva necessario per loro un Cammino progressivo che permetta loro di maturare nella fede. Ma, in cambio, questi poveri furono maestri al mondo intero nella loro docilità al Vangelo.

Questa frase di Papa Giovanni XXIII e tutto il Concilio furono luce per tanti vescovi e in particolare per Mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che ci ha lasciato in questi ultimi giorni alla soglia dei 100 anni. Fu l’unico vescovo italiano tra i padri conciliari a firmare il “Patto delle catacombe” di cui riprendo il testo sul sito della comunità di Bose. In seguito questi vescovi firmatari, all'origine in maggioranza latino americani, arrivarono a più di 500. 

Meditiamo questo testo e cerchiamo di ritrovare il soffio del Concilio che, come ci ha ricordato Papa Francesco, è tutto Magistero, va applicato nella sua interezza.


Il “Patto delle catacombe” per una chiesa serva e povera

 Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato un’eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle catacombe”. Il documento è una sfida ai “fratelli nell’episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII. I firmatari si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Ecco il testo:


Noi, vescovi riuniti nel concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri fratelli nell’episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci con il pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:

1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di trasporto e tutto il resto che da qui discende. Cf. Mt 5,3; 6,33 ss.; 8,20.

2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9 ss.; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, eccetera; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33 ss.

3. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi a una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At 6,1-7.

4. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (eminenza, eccellenza, monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di “padre”. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Gv 13,12-15.

5. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.

6. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.

7. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, eccetera, al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18 ss.; Mc 6,4; Mt 11,4 ss.; At 18,3 ss.; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.

8. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33 ss.

9. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44 ss.; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9; 1Tim 5,16.

10. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:

a) a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere; 

b) a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.

11. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:

a) ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;

b) formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo Spirito che capi secondo il mondo; 

c) cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;

d) saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34 ss.; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.

Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.


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