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venerdì 30 marzo 2018

14 NISSAN / INIZIO DELLA PASQUA EBRAICA


Oggi, Venerdì Santo per noi, è anche il plenilunio di primavera e quindi il primo giorno di Pesach, della Pasqua ebraica (30 marzo - 7 aprile 2018). 
Ho tratto dal sito della comunità ebraica di Bologna alcune riflessioni molto interessanti spiritualmente per noi. Auguri ai nostri fratelli e sorelle ebrei, che ci hanno trasmesso le Promesse, la Legge, i Profeti e dal loro popolo è nato Gesù. 

Mai più antisemitismo, e mai più oppressione dell'Uomo sull'Uomo.

Come ci si prepara ad accogliere la festa
Ogni festa ebraica richiede un’accurata preparazione che coinvolge soprattutto la donna: ma quella di Pesach necessita di un impegno particolare.
E’ scritto: “Per sette giorni mangerete pane azzimo, ma prima che giunga il primo giorno toglierete dalle vostre case ogni lievito; osserverete quindi questo giorno in tutte le vostre generazioni” (Es 12, 15-17).
Per rivivere nel tempo il momento fatidico della loro liberazione dalla schiavitù e della loro nascita a popolo libero, gli ebrei mangiano tuttora ogni anno a Pesach, per sette giorni (fuori di Israele otto), il pane azzimo. E’ facile comprendere come l’ordine di eliminare dalla casa ogni tipo di sostanza lievitata imponga alla donna il dovere di compiere un’accuratissima pulizia della casa. Un impegno che peraltro le donne eseguono con entusiasmo e con estrema spolverando, lavando ogni recondito angolo dei mobili, dei ripostigli, e di tutta la casa, per prepararla a introdurvi il pane azzimo, cioè il pane non lievitato che in ebraico si chiama matzah.
La ragione per cui a Pesach gli ebrei mangiano pane azzimo è da rintracciarsi nel fatto che uscirono così frettolosamente dall’Egitto che non ebbero il tempo per fare lievitare il pane. Se poi esaminiamo la storia e gli usi dell’antico popolo di Israele, possiamo scoprire nel pane non lievitato significati assai più profondi e mistici: il pane azzimo era quello che il sommo sacerdote mangiava sull’altare durante i sacrifici. Secoli dopo divenne il pane comunemente usato dalla setta mistica degli esseni.
Evidentemente l’antica civiltà ebraica aveva un certo rifiuto per il lievito forse perché, essendo il risultato della fermentazione di un impasto di farina, gli faceva perdere le caratteristiche di un alimento puro, trasformandolo in cibo impuro: esso assume perciò nella concezione ebraica il simbolo di quel che non deve essere, in pratica simbolo del male. Interessante a questo proposito notare l’attinenza fra i nomi hametz, “cibo lievitato”, e hamas, “violenza”, quindi ingiustizia e immoralità. Il far scomparire dalla casa ogni genere di cibo lievitato va quindi interpretato anche come un invito a sgomberare il nostro animo da ogni tipo di hametz, o di hamas, da ogni residuo di odio, di rancore, di violenza, di corruzione, per presentarsi liberi e puri dinanzi al Signore, degni pertanto di offrire il zevach pesach, il “sacrificio pasquale”.
Cena di Pesach.

Il Seder
La prima sera di Pesach (le prime dure sere fuori di Israele) le famiglie ebraiche si riuniscono intorno a un tavolo apparecchiato in modo particolare, per celebrare il Seder, una cerimonia durante la quale di legge la Haggadah, il racconto dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, arricchito di midrashim (parabole) e commenti dei Maestri, e seguito da una cena che si conclude con canti corali di inni e melodie che si tramandano di generazione in generazione, di luogo in luogo.
(…) Il Seder è una cerimonia di alto valore pedagogico sotto molteplici aspetti. A ogni commensale, per sottolineare il senso della libertà appena acquisito, è permesso di sedere a tavola senza osservare le strette regole dell’etichetta: si possono appoggiare i gomiti sul tavolo, o sdraiarsi comodamente sulle seggiole, cose che i commensali adulti in genere, per vecchia abitudine, evitano di fare, ma che rende estremamente felici i bambini che assaporano a loro modo il primo senso di libertà.
Sul tavolo apparecchiato viene posto in cesto contenente tre pane azzimi (matzah), in ricordo del pane non lievitato mangiato nel deserto, una zampa d’agnello (pesach), in ricordo del zevach pesach, il sacrificio pasquale compiuto dal popolo che si accingeva a uscire dalla schiavitù, e dell’erba amara (maror), diversa a seconda delle tradizioni e della provenienza di chi celebra il Seder, in ricordo dell’amarezza patita dagli ebrei in schiavitù.
Il maror simboleggia forse il passo più importante verso la conquista della libertà. Dalle amarezze del passato, che lasciate fermentare, “lievitare” nell’animo e nel cuore, avrebbero potuto trasformare il popolo ebraico in un popolo crudele e vendicativo , è stato invece tratto un insegnamento basilare: è necessario affrontare la vita con una più consapevole e serena visione del rapporto fra gli uomini, è indispensabile volgere il cuore e l’animo con profondo affetto e comprensione verso i poveri, gli oppressi, i sofferenti.
Dalle amarezze della schiavitù è nato un inestinguibile odio per la schiavitù, la nostra, e quella di qualunque creatura, e un altrettanto inestinguibile amore per la libertà a cui ogni essere umano ha diritto e che, unica, permetterà ai figli di Israele anche in futuro di sopravvivere per adempiere alla missione.
Oltre a questi tre simboli di Pesach (pesach, matzah, maror), nel cesto vi è un uovo sodo, il charoseth, un impasto preparato anch’esso secondo ricette che variano a seconda delle tradizioni dei vari luoghi di provenienza, e che simboleggi la malta che gli ebrei schiavi erano costretti a preparare in Egitto per fabbricare i mattoni con cui avrebbero edificato la città del Faraone. Per il Seder però la malta si trasforma in un dolce impasto di frutti: datteri, noci, mandorle e altro per sottolineare la fine della schiavitù. Vi è poi del sedano (carpas), che deve essere intinto in acqua e sale, o in acqua e aceto: probabilmente una specie di aperitivo in vista della cena.
Sul tavolo viene posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla santificazione della festa attraverso il vino e il pane, un altro bicchiere d’argento pieno di vino destinato al profeta Elia. La tradizione vuole infatti che il profeta, durante la prima sera di Pesach, si aggiri fra le case degli ebrei per portare i suoi voti augurali alle famiglie che celebrano il Seder, e ognuno spera di far parte dei privilegiati che riceveranno la sua visita.
La visita è tanto più attesa in quanto la tradizione afferma che sarà proprio il profeta Elia ad annunciare al mondo il giungere dell’Epoca messianica. E ogni ebreo vive la speranza che l’Epoca messianica, l’epoca della pace, dell’armonia, dell’amore fra tutti i popoli, sia proprio lì, dietro la porta di casa, porta che infatti, durante il Seder, viene lasciata aperta anche perché è detto: “chi vuole entri, mangi e celebri Pesach”.
Forse l’uso si riallaccia anche al Talmud in cui è scritto: “Nel mese di Nissan fummo redenti, e nel mese di Nissan siamo destinati a essere redenti” (Rosh ha-shanah 11).
Val la pena soffermarsi un momento sul significato dell’uovo sodo. Per l’ebraismo esso ha un valore tutto particolare. L’uovo è infatti il primo cibo che si offre a coloro che sono in lutto per la perdita di un parente stretto, in quanto è il simbolo della vita che si appresta a nascere, in opposizione alla morte. Perciò nel momento in cui il nostro animo è in preda alla disperazione e ci pare di non poter trovare né conforto né consolazione a una perdita irrimediabile, esso ci insegna che la vita che vive in noi è un dono che Dio ci ha concesso, e che in questo dono dobbiamo trovare la forza di continuare la nostra opera.
Inoltre l’uovo non ha spigoli, perciò non ha né un punto di inizio né un punto di fine. Così la sua rotondità, proprio nel momento in cui pare che con la morte sia tutto finito, ci ricorda che la vita è un ciclo che, come l’uovo, non ha né inizio né fine: chi dai propri cari ha ricevuto la vita e gli insegnamenti, chi lascia dietro di sé il dolore dei figli ai quali ha trasmesso la vita e gli insegnamenti, continua a vivere attraverso di loro.
Ed è questo il modo umano di conquistare l’eternità.
Il segno del lutto che noi aggiungiamo al festoso cesto del Seder, e che per tradizione viene consumato da tutti i primogeniti maschi (ma se anche altri ospiti vorranno associarsi, potranno farlo) è un triste ricordo degli innocenti figli primogeniti degli egiziani, vittime della cieca ostinazione del Faraone. Proprio per questa ragione è il primogenito ebreo che, per dimostrare il proprio dolore per la morte dei fratelli egiziani, usa mangiare l’uovo sodo.
Per la medesima ragione i maschi primogeniti, il giorno precedente il Pesach, fanno digiuno.
Dicevamo che il Seder è molto importante anche dal punto di vista pedagogico: dopo il Kiddush il primo intervento è riservato al commensale più giovane o, in coro, ai più giovani; si tratta del Mah nishtannah: “come è diversa questa serata da tutte le altre sere!”. Il canto è composto da quattro domande che il bambino rivolge agli adulti: “Perché tutte le altre sere mangiamo pane, e questa sera azzima? Perché tutte le altre sere mangiamo qualsiasi tipo di verdure, e questa sera erba amara? Perché tutte le altre sere non intingiamo (riferito al sedano intinto in acqua e sale o aceto) neppure una volta, e questa sera due volte? Perché tutte le altre sere mangiamo seduti, e questa sera sdraiati?”.
Le domande danno il via alle risposte, impartito attraverso la lettura della Haggadah che narra gli eventi miracolosi legati all’uscita dall’Egitto.
Durante il Seder si devono quattro bicchieri di vino in memoria delle quattro espressioni usate da Dio quanto preannuncia a Mosè la prossima liberazione del popolo: “li sottrarrò” dalle sofferenze dell’Egitto “; “li farò uscire” dal luogo di schiavitù; “li redimerò e li prenderò come mio popolo”. Esse rappresentano i vari stadi della libertà appena riconquistata che vanno elevandosi a sempre maggior livello fino a raggiungere la santità di “li prenderò come mio popolo” (Es 6,7).
La Torah aggiunge una quinta espressione: e “li farò entrare nella terra promisi ai loro padri” (Es 6,8). Non può esistere in effetti una completa libertà morale se non è legata a una libertà di comportamento, possibile solo in uno stadio proprio e indipendente.
Durante la lettura della Haggadah vengono nominate le dieci piaghe che hanno colpito l’Egitto e per ognuna di essa si versa un po’ di vino contenuto nel bicchiere in un recipiente: ciò sia per augurarci che queste disgrazie siano sempre lontane da noi e dalle nostre famiglie; sia per ricordare che nessuna gioia può essere completa se è costata lutti e dolori ad altri; sia, infine, per auspicare che mai più si ripeta una situazione in cui un popolo meriti di essere colpiti da tanti flagelli.
Un momento particolarmente interessante, e psicologicamente e pedagogicamente assai valido, è quello dedicato alla lettura del brano riguardante i “quattro figli”: il sapiente, il semplice, colui che non è capace neppure di domandare, e il figliolo cattivo.
I quattro figli rappresentano i vari tipi di cui l’umanità è composta e il testo della Haggadah ci fornisce importanti suggerimenti sul tipo di risposta da dare ad ognuno di essi.
Al saggio, cioè colui che pone una domanda acuta e complessa, si deve dare una risposta adeguata, dotta e approfondita, che non deluda né sottovaluti l’intelligenza e la capacità di apprendimento di chi domanda.
Al semplice occorre dare una risposta chiara e comprensibile per permettergli di capire pienamente il senso di quanto gli si sta spiegando, stimolandolo possibilmente a far nuove domande.
Particolarmente importante è l’insegnamento che viene impartito al figlio che non è in grado di porre domande; ci dice infatti la Haggadah: “A colui che sa domandare, aprigli tu la bocca!”. Importante notare che nella frase “apri tu”, il “tu” è espresso al femminile, “apri” al maschile. È la madre la prima insegnante del bambino, tocca quindi soprattutto a lei, fin dall’inizio, seguire con la massima attenzione il suo sviluppo mentale: ma è il padre che deve coadiuvare e sostenere sua moglie in questa opera. Se ne conclude che solo la collaborazione fra padre e mandre permette un normale, sereno sviluppo del carattere infantile.
Inoltre, se un bimbo si mostra totalmente disinteressato al mondo che lo circonda, non fa domande e non si pone interrogativi, se dà segno di isolarsi e di non partecipare in alcun modo alla vita attorno a lui, lungi dal rallegrarsi per il “buon carattere” del bambino che non disturba, “aprigli la bocca”, sollecita cioè la sua curiosità, coinvolgilo nei fatti che accadono per renderlo vivo, interessato e partecipe, aiutandolo quindi a crescere e a entrare in modo intelligente e attivo nella società.
Intrigante e piuttosto ironica è la risposta destinata a quel figlio che nella Haggadah viene nominato per secondo: il figlio “malvagio”, che forse rientra più nella categoria dei figli contestatari che in quella di veri e propri “cattivi”.
Egli chiede: “Che cosa significa questa cerimonia (il Seder) per voi?”; domanda in cui sottolinea: “Per voi, e non per me!”.
Si pone in questa maniera, con una certa arrogante superiorità, totalmente al di fuori del gruppo.
Suggerisce la Haggadah: “Tu rispondigli risentito (letteralmente “fagli digrignare i denti”); “Se tu fossi stato presente al momento della salvezza, non saresti stato salvato!”.
Una riposta apparentemente impietosa.
Ma riflettiamo sui motivi che spingono tante volte i giovani, e non sempre a torto, a contestare certi atteggiamenti, certi usi ereditati e forse non sufficientemente o logicamente spiegati. Nostro compito è quello di chiarire per dar loro modo di comprendere. Ebbene, con la frase incisiva “tu non saresti stato salvato” la Haggadah chiama il giovane a una responsabilità personale facendogli rivivere in prima persona, oggi, il momento drammatico della schiavitù. Ecco, gli dice la Haggadah, se tu, che adesso siedi con noi libero, e puoi parlare liberamente dell’epoca della schiavitù, tu che oggi contesti e rifiuti le responsabilità insite del passato, ti fossi trovato insieme ai nostri primogeniti a scegliere fra schiavitù e libertà, con tutte le responsabilità che tale scelta comportava, forse avresti vigliaccamente scelto di continuare a servire Faraone. In tal modo non avresti meritato la salvezza e oggi saresti ancora schiavo.
La Haggadah non accenna però all’esistenza di un quinto figlio; quello che non c’è perché si è staccato da ogni forma di tradizione e si è perso.
A qualsiasi tipo di domanda, anche a quella del contestatore, può essere data una risposta, risposta che può essere discussa, che può arricchire chi lo fa e chi la riceve con nuove interpretazioni non necessariamente in antitesi o in contrasto con quelle precedenti, ma persino innovative e progressiste.
Ma il figlio che non è presente è perso.
Il Seder finisce con una lunga serie di canti corali tradizionali composti da molte strofe, la cui caratteristica precipua è quella della ripetizione, alla fine di ogni strofa, di una frase: quella che tutti i commensali per tradizione conoscono meglio e quindi cantano a gran voce con grande entusiasmo.
In ultimo viene intonato il canto l’anno prossimo tutti a Gerusalemme, ricostruita, e viene distribuito l’afikomen, preparato nella parte iniziale del Seder, che simboleggia il sacrificio pasquale e che deve essere consumato quando si è già sazi.
http://www.comunitaebraicabologna.it/it/festivita/pesach/79-pesach-5778-31-marzo-7-aprile-2018

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