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lunedì 7 novembre 2022

MONDO RUSSO; D. STEFANO CAPRIO: PUTIN HA PERSO LA MEMORIA.

 


I giorni della memoria

di Stefano Caprio

Celebrando il 4 novembre la torbida memoria seicentesca, i russi trovano le ragioni per proseguire nella grande guerra difensiva, ora di fatto impantanata nei fanghi tardo-autunnali delle zone annesse. Ma invece di selezionare eventi passati di gloria imperiale, sarebbe stato meglio non oscurare un’altra data simbolica: quella del 30 ottobre, la memoria dei dissidenti sovietici, oggi cancellata d’autorità.

MONDO RUSSO I giorni della memoria


Il 4 novembre la Russia ha celebrato la sua principale festa nazionale, il Giorno dell’Unità Popolare (Den Narodnogo Edinstva), che commemora gli eventi risalenti al 1612, quando fu dichiarata la vittoria sugli invasori polacchi, e il regno dello zar di Moscovia fu affidato alla nuova dinastia dei Romanov, che sostituì quella degli antichi Rjurikidi. La retorica bellica di questi tempi non può che enfatizzare una vicenda pur così oscura e controversa, che viene considerata la fine del “periodo dei Torbidi” nel passaggio tra XVI e XVII secolo.

Quel cambio epocale metteva fine al sogno della “Terza Roma” del primo zar Ivan il Terribile, che aveva dominato la scena per cinquant’anni di regno, rovinando tutto con la follia autocratica e poliziesca, e con insensate campagne belliche verso i territori baltici. È una fase per molti aspetti simile a quella che stiamo vivendo oggi, dopo la fine dell’impero sovietico novecentesco e i “torbidi” trentennali della nuova Russia di Eltsyn e Putin, a cui si possono accostare diversi personaggi di quel periodo. I Torbidi antichi si svilupparono attorno alle contraddizioni del reggente-zar Boris Godunov, discendente della Opričnina, la guardia imperiale di Ivan, madre di tutte le polizie politiche russe fino al Kgb/Fsb di Putin.

Godunov è una figura cruciale della storia russa, al punto da aver ispirato poemi e opere artistiche e musicali di primaria importanza: dittatore e riformatore, visionario e costruttore di città, ma anche accusato di infami tradimenti e abbandonato da tutti, fino a morire per eccesso di cibo e alcool sulle terrazze del Cremlino, un po’ Eltsyn e un po’ già Putin. Boris ebbe l’intuizione di elevare la sede ecclesiastica moscovita al rango di patriarcato, costringendo nel 1589 il patriarca di Costantinopoli Geremia II a firmare il decreto di istituzione della “Terza Roma”, dopo averlo tenuto in ostaggio dorato al Cremlino per diversi mesi.

In seguito a tale decisione, il Seicento russo fu il secolo della sinfonia tra il trono e l’altare, una simbiosi tra politica e religione che si sarebbe ripetuta in toni simili solo nella Russia putiniana. Il patriarcato fu poi soppresso da Pietro il grande agli inizi del Settecento, e la Chiesa rimase asservita all’impero per i successivi secoli zaristi e anche nel periodo sovietico, che aveva formalmente restaurato il ruolo, ma non la libertà di azione dei patriarchi, ridotti al ruolo di “chierichetti” di Stalin e Brežnev. Durante i Torbidi, invece, prima si esaltò la figura del patriarca-martire Ermogen, fatto morire di fame in una fortezza dai polacchi invasori, e poi emerse il fondatore della nuova dinastia zarista, quel Fedor Romanov che era stato costretto a diventare monaco, rinchiudendo in una cella anche la moglie, e si prese la rivincita come patriarca Filaret, imponendo sul trono il figlio Mikhail, il primo zar della nuova era.

Per una ventina d’anni lo zar-figlio rimase sottomesso al patriarca-padre, e nel corso del secolo la situazione ebbe a ripetersi, in particolare con il patriarca Nikon, di cui l’attuale Kirill sembra la reincarnazione anche nei tratti del volto, che pretendeva di essere chiamato “signore e monarca” della Russia prima di essere cacciato dallo zar Aleksej, nipote di Filaret. Prima di morire Nikon cercò di tornare a Mosca per proclamarsi “papa universale”, trasferendo gli antichi patriarcati nelle provincie vicine a Mosca, appoggiato in questo da alcuni patriarchi orientali in esilio dall’impero ottomano.

Questi e altri sono i complessi e grotteschi eventi che vengono celebrati nella Russia militante di oggi, in cerca della rivincita sui polacchi e sull’Occidente, che da allora, secondo i capi moscoviti, cercano in ogni modo di cancellare la Russia. Ad opporsi agli invasori, ispirati dai gesuiti di Cracovia, furono le “armate popolari” del mercante Kuzma Minin e del principe Dmitrij Požarskij, le cui figure sono immortalate nel monumento di fronte all’ingresso del Cremlino, indicando con il gesto delle braccia la via del ritorno agli invasori. Sono i profeti della resistenza russa ad ogni tentativo di occupazione, da quella degli svedesi settecenteschi a quella napoleonica, fino all’assalto delle armate hitleriane, così intensamente rievocato in questi mesi.

Celebrando la torbida memoria seicentesca, i russi trovano quindi le ragioni per proseguire nella grande guerra difensiva, ora di fatto impantanata nei fanghi tardo-autunnali delle zone annesse, resistendo con il sacrificio del popolo “mobilitato” ai tentativi di riconquista dei corrotti ucraini, eredi dei polacchi e dei gesuiti di allora. In realtà la scelta del 4 novembre fu piuttosto casuale, quando dopo la fine dell’Urss venne soppressa la grande festa del 7 novembre che commemorava la Rivoluzione d’Ottobre, in un sovrapporsi di calendari anch’esso assai simbolico, nell’endemica contraddizione della storia russa.

La vicinanza delle due date permetteva di mantenere l’abitudine del “ponte” festivo di inizio novembre, a cui anche i russi post-sovietici non intendevano rinunciare. A novembre di solito calano i primi geli e fioccano le prime nevi, e l’abitudine popolare del saluto all’inverno incipiente significa anche una dinamica di morte e risurrezione: l’inverno infatti copre e nasconde, chiude in casa e coglie per strada, spesso senza lasciare scampo ai viaggiatori, o semplicemente ai girovaghi in preda ad eccessi alcolici. La festa di novembre è un addio, mentre l’arrivo della primavera di maggio è la nuova nascita, il saluto di chi ritorna dalla morte, e mai come quest’anno la tempistica tradizionale coincide con i timori e gli auspici della realtà, di fronte alla minaccia della catastrofe nucleare, o al congelamento della guerra perenne.

Furono i dirigenti della Chiesa ortodossa, l’allora patriarca Aleksij e il metropolita Kirill, a suggerire negli anni ’90 la data “patriarcale”, quasi a lasciar intendere di essere nuovamente loro ad arrogarsi il diritto di benedire e maledire ogni forma di vita sociale e politica. In seguito la festa ha riassorbito sia le pretese imperiali dello “zar del popolo”, come volevano essere definiti i monarchi Romanov, sia quelle della “dittatura del proletariato”, in cui il popolo veniva educato e “mobilitato” dal partito. Anche oggi il patriarca Kirill tuona contro il degrado morale occidentale, a cui solo la vera Ortodossia russa è in grado di resistere, e come allora veniva innalzata contro i polacchi l’icona miracolosa della Madonna di Kazan, oggi si mostra al popolo l’icona della Santissima Trinità, strappata al Museo della Galleria Tret’jakov di Mosca per rievocare “l’unità divina” del trono, dell’altare e dell’esercito.

Eppure proprio la memoria è la via della redenzione e della pace, come suggeriscono le celebrazioni cattoliche dei Santi e dei Defunti proprio di questi giorni, e invece di selezionare eventi passati di gloria imperiale, sarebbe stato meglio non oscurare un’altra data simbolica, quella del 30 ottobre, quando ricorreva il Giorno della Memoria delle vittime delle repressioni politiche, istituito nella Russia eltsiniana del 1991. Era la memoria dei dissidenti sovietici, oggi cancellata d’autorità dal nuovo regime dittatoriale, che oltre all’Ucraina, quest’anno ha sterminato tutte le voci alternative, sopprimendo perfino l’associazione Memorial che ne era lo strumento e la voce. Era stato il leader del dissenso e premio Nobel della Pace Andrej Sakharov a ispirare quella memoria, quando il 30 ottobre 1974 aveva organizzato una conferenza stampa nel suo appartamento moscovita, per sostenere lo sciopero della fame di alcuni prigionieri politici rinchiusi nei lager della Mordovia e della regione di Perm.

Da allora il 30 ottobre era diventato un appuntamento di tutti gli attivisti umanitari, negli anni della persecuzione fino a quelli odierni della cancellazione. Anche quest’anno la “Restituzione dei nomi” si è svolta in quasi tutta la Russia, tranne che a Mosca, dove perfino nella cattedrale cattolica dell’Immacolata Concezione l’arcivescovo locale mons. Pezzi ha proibito la proclamazione dei nomi delle vittime cattoliche della repressione sovietica, che pure sono affissi alle mura della chiesa. Il 30 ottobre 1988 era anche stata fondata l’associazione Memorial, che l’anno dopo nella stessa data riunì migliaia di persone in una catena umana attorno alla sede del Kgb della Lubjanka, chiedendo di processare i “boia čekisti”, i tanti oppressori della polizia politica dell’Urss.

La Restituzione dei Nomi fu inaugurata nel 2007 presso la stele moscovita delle vittime delle Solovki, il primo lager di Lenin dove sorgeva l’antico monastero dell’estremo nord. Allora i nomi rievocati erano 420, poi cresciuti di anno in anno con la pubblicazione dei documenti di Memorial, fino alla chiusura putiniana degli archivi e l’oscuramento della memoria. L’ultima sua espressione pubblica di un certo rilievo fu l’inaugurazione del “Muro dell’Afflizione” (Stena Skorbi) sul prospekt Sakharova di Mosca, il 30 ottobre 2017, a 80 anni dal terrore staliniano del 1937. Lo stesso Putin intervenne alla manifestazione, affermando che la repressione era una tragedia e un crimine, che non si può giustificare. Poi, evidentemente, ha perso la memoria.

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