Dal discorso
di papa Francesco ai vescovi e sacerdoti delle Chiese di Sicilia si è rilevato
e diffuso sui Media la sua riflessione su merletti e “bonete” (è la berretta o
tricorno del prete prima del Concilio, in spagnolo). Ma non ha detto solo quello.
È troppo riduttivo anche se il tema liturgico è importante e introduce a tutto il
rinnovamento conciliare che ancora stenta nelle nostre parrocchie. Quindi leggiamo
tutto il suo intervento.
In questo discorso Papa Francesco fa riferimento al n. 48 di Evangeli Nuntiandi ( La Gioia del Vangelo: IL RUOLO DEI SACRAMENTI E LA PIETA' POPOLARE / NN. 47 e 48 di Evangelii Nuntiandi) in un senso che potrebbe sembrare poco evidente. Infatti Paolo VI in quella Enciclica vuole riscattare la pietà popolare da una mentalità diffusa all’epoca (1975) che voleva cancellare tutto quanto c'era prima, come se la Chiesa avesse sbagliato tutto finora o fosse nata col Concilio. Arrivando in Italia ho amato quell’equilibrio maggiore che non rinnegava tutto il passato come talvolta in Francia. Ma poi ho costatato le lentezze e anche i rifiuti nell’applicazione del Concilio, nascondendosi dietro i numeri ancora consistenti di pratica religiosa e di richiesta di sacramenti ma senza che questo incida sulla vita, senza conversione. E anche a livello liturgico ci sono molte indicazioni del Messale o dei Rituali che rimangono lettera morta perché sta scritto da qualche parte: “non si esclude però che …" e si fa si faccia alla vecchia maniera”.
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI VESCOVI E SACERDOTI DELLE CHIESE DI SICILIA
Sala Clementina
Giovedì, 9 giugno 2022
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Cari fratelli!
Sono contento di incontrarvi. Ricordo con gioia il mio
viaggio a Piazza Armerina e a Palermo: non l’ho dimenticato. Ringrazio
Monsignor Antonino Raspanti per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti
voi. Tenendo presente la realtà che lui ha presentato, vorrei condividere
alcune riflessioni. Un altro luogo che non ho dimenticato dei viaggi è
Agrigento, il primo che ho fatto, davanti alla tragedia di
Lampedusa.
Il cambiamento d’epoca nel quale ci troviamo a vivere
richiede scelte coraggiose, anche se ponderate e, soprattutto, illuminate con
il discernimento dello Spirito Santo. Questo cambiamento sta mettendo a dura
prova soprattutto i legami sociali e affettivi, come la pandemia ha ancor più
chiaramente evidenziato. L’atteggiamento responsabile con cui viverlo, come in
altre fasi storiche, è accoglierlo con consapevolezza e con una «fiduciosa
presa in carico della realtà, ancorata alla sapiente Tradizione viva e vivente
della Chiesa, che può permettersi di prendere il largo senza paura» (Discorso al Simposio “Per una
teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022).
La Sicilia non è fuori da questo cambiamento; anzi, come è accaduto in passato, si trova al centro di percorsi storici che i popoli continentali disegnano. Essa ha spesso accolto i passaggi di questi popoli, ora dominatori ora migranti, e accogliendoli li ha integrati nel suo tessuto, sviluppando una propria cultura. Ricordo quando, circa 40 anni fa, mi hanno fatto vedere un film sulla Sicilia: “Kaos”, si chiamava. Erano quattro racconti di Pirandello, il grande siciliano. Sono rimasto stupito da quella bellezza, da quella cultura, da quella “insularità continentale”, diciamo così… Ma questo non significa che sia un’isola felice, perché la condizione di insularità incide profondamente sulla società siciliana, finendo per mettere in maggior risalto le contraddizioni che portiamo dentro di noi. Sicché si assiste in Sicilia a comportamenti e gesti improntati a grandi virtù come a crudeli efferatezze. Come pure, accanto a capolavori di straordinaria bellezza artistica si vedono scene di trascuratezza mortificanti. E ugualmente, a fronte di uomini e donne di grande cultura, molti bambini e ragazzi evadono la scuola rimanendo tagliati fuori da una vita umana dignitosa. La quotidianità siciliana assume forti tinte, come gli intensi colori del cielo e dei fiori, dei campi e del mare, che risplendono per la forza della luminosità solare. Non a caso tanto sangue è stato versato per la mano di violenti ma anche per la resistenza umile ed eroica dei santi e dei giusti, servitori della Chiesa e dello Stato.
L’attuale situazione sociale della Sicilia è in netta
regressione da anni; un preciso segnale è lo spopolamento dell’Isola, dovuto
sia al calo delle nascite – questo inverno demografico che stiamo vivendo tutti
noi – sia all’emigrazione massiccia di giovani. La sfiducia nelle istituzioni
raggiunge livelli elevati e la disfunzione dei servizi appesantisce lo
svolgimento delle pratiche quotidiane, nonostante gli sforzi di persone valide
e oneste, che vorrebbero impegnarsi e cambiare il sistema. Occorre comprendere
come e in quale direzione la Sicilia sta vivendo il cambiamento d’epoca e quali
strade potrebbe intraprendere, per annunciare, nelle fratture e nelle giunture
di questo cambiamento, il Vangelo di Cristo.
Tale compito, pur essendo affidato all’intero popolo di
Dio, chiede a noi sacerdoti e vescovi il servizio pieno, totale ed esclusivo. A
fronte di questa grande sfida, anche la Chiesa risente della situazione
generale con le sue pesantezze e le sue svolte, registrando un calo di
vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, ma soprattutto un distacco
crescente dei giovani. I giovani stentano a percepire nelle parrocchie e nei
movimenti ecclesiali un aiuto alla loro ricerca del senso della vita; e non
sempre vi scorgono la chiara presa di distanza da vecchi modi di agire, errati
e perfino immorali, per imboccare decisamente la strada della giustizia e
dell’onestà. Mi sono addolorato quando ho dovuto avere nelle mani qualche
pratica che è arrivata alle Congregazioni romane per qualche giudizio su
sacerdoti e persone di Chiesa: ma come mai, come mai si è arrivati a questa
strada di ingiustizia e disonestà?
Non sono mancate, tuttavia, in passato, e non mancano
ancora oggi, figure di sacerdoti e fedeli che abbracciano pienamente le sorti
del popolo siciliano: come non ricordare i Beati don Pino Puglisi e Rosario
Livatino, ma anche persone meno note, donne e uomini che hanno vissuto in ogni
stato di vita la fedeltà a Cristo e al popolo? Come ignorare il silenzioso
lavoro, tenace e amorevole, di tanti sacerdoti in mezzo alla gente sfiduciata o
senza lavoro, in mezzo ai fanciulli o agli anziani sempre più soli? E a
proposito dei sacerdoti che sono vicini ai vecchi, ho ricevuto poco tempo fa
una lettera da uno dei vostri sacerdoti, che mi raccontava come aveva
accompagnato il vecchio parroco negli ultimi tempi di vita, fino all’ultimo
momento. Tornava stanchissimo dal lavoro, ma la prima cosa era andare dal
“vecchio” e raccontargli le cose, farlo felice; e poi portarlo a letto,
accompagnarlo fino a che si addormentasse… Questi sono gesti grandi, grandi! E
questa grandezza c’è anche fra voi, nel vostro clero. La figura sacerdotale in
mezzo al popolo, di bravi sacerdoti, è importante perché in Sicilia, si guarda
ancora ai sacerdoti come a guide spirituali e morali, persone che possono anche
contribuire a migliorare la vita civile e sociale dell’Isola, a sostenere la
famiglia e ad essere riferimento per i giovani in crescita. Alta ed esigente è
l’attesa della gente siciliana verso i sacerdoti. Non restare a metà del
cammino, per favore!
Di fronte alla consapevolezza delle nostre debolezze,
sappiamo che la volontà di Cristo ci pone nel cuore di questa sfida. La chiave
di tutto è nella sua chiamata, sulla quale appoggiarci per prendere il largo e
gettare ancora le reti. Noi non conosciamo nemmeno noi stessi, ma se torniamo
alla chiamata, non possiamo ignorare quel Volto che ci ha incontrati e tratti
dietro di sé, persino uniti a sé, come la nostra tradizione insegna quando
afferma che nella liturgia agiamo addirittura “in persona Christi”.
Questa unità piena, questa identificazione non possiamo limitarla alla
celebrazione, bensì occorre viverla pienamente in ogni istante della vita,
memori delle parole dell’apostolo Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in
me» (Gal 2,20).
Se allora, nel sentimento della gente di Sicilia, prevale
l’amarezza e la delusione per la distanza che la separa dalle zone più ricche
ed evolute del Paese e dell’Europa; se tanti, soprattutto giovani, aspirano ad
andare via per trovare standard di vita più ricchi e comodi, mentre chi rimane
si porta dentro sentimenti di frustrazione; a maggior ragione noi pastori siamo
chiamati ad abbracciare fino in fondo la vita di questo popolo. Non
dimentichiamo i profeti d’Israele, che rimasero fedeli al popolo per la fedeltà
di Dio all’alleanza, e lo seguirono fin nell’esilio. Come pure i saggi e i pii
che nella diaspora sostennero il popolo fedele. Stare accanto, essere vicini,
ecco quello che siamo chiamati a vivere, per la fedeltà di Dio; per amore suo
stiamo accanto fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, quando ad esse
conducono le circostanze di giustizia, di riconciliazione, di onestà e di
perdono. Vicinanza, compassione e tenerezza: questo è lo stile di Dio ed è
anche lo stile del pastore. Lo stesso Signore dice al suo popolo: “Dimmi, quale
popolo ha i suoi dei così vicini come tu hai me?”. La vicinanza, che è
compassionevole, perdona tutto, è tenera. Abbraccia, accarezza.
Nell’“oggi” faticoso del popolo di Dio che è in Sicilia, i
sacerdoti attingono quotidianamente questa forma di vita dall’Eucaristia. Lo
dicevo parlando con voi a Palermo quattro anni fa: «Le parole dell’Istituzione
delineano la nostra identità sacerdotale: ci ricordano che il prete è uomo del
dono, del dono di sé, ogni giorno, senza ferie e senza sosta. Perché la nostra,
cari sacerdoti, non è una professione ma una donazione; non un mestiere, che
può servire pure per fare carriera, ma una missione» (Discorso al clero, ai
religiosi e ai seminaristi, Palermo, 15 settembre 2018). E per
favore, state attenti al carrierismo: è una strada sbagliata che alla fine
delude, alla fine delude. E ti lascia solo, perduto.
E poi vi anima la grande devozione mariana della Sicilia,
consacrata a Maria Immacolata, per la quale insieme, vescovi e sacerdoti, avete
preso l’abitudine di celebrare una Giornata Sacerdotale Mariana: continuate con
questo. Il primo valore che si sottolinea con questa pratica è quello
dell’unità, davvero cruciale dinanzi all’individualismo e alla frammentazione,
se non alla divisione che incombe su di noi tutti. L’unità, dono del sacrificio
pasquale di Gesù, è rafforzata con il metodo della sinodalità, che anche voi
avete adottato tramite i percorsi formativi impostati sul tema «Con passo
sinodale». Nelle varie iniziative per la formazione regionale del clero, è
bello il vostro proposito di fare esercizi di sinodalità vivificando la
fraternità e la paternità sacerdotale, di “camminare insieme” narrando
reciprocamente le esperienze umane e spirituali, le iniziative pastorali, con
sincerità e naturalezza, con gratitudine e stupore per i passi compiuti con
l’aiuto dello Spirito. Un cammino, certamente, che richiede apertura
alle sorprese di Dio nella nostra vita e negli snodi esistenziali
delle nostre comunità, con la consapevolezza che attraverso l’ascolto, umile e
sincero, possiamo vivere un discernimento che raggiunge il cuore e ci modifica
interiormente.
L’altro valore è quello dell’affidamento a Maria, donna
della tenerezza e della consolazione, della pazienza e della compassione. Tra
il sacerdote e la Madre celeste si intreccia giorno dopo giorno un segreto
dialogo che conforta e lenisce ogni ferita, che soprattutto allevia negli alti
e bassi della quotidianità ai quali egli va incontro. In questo dialogo
semplice, fatto di sguardi e di parole umili come quelle del Rosario, il
sacerdote scopre come la perla della verginità di Maria, totalmente dedita a
Dio, la renda madre tenera verso tutti. Così anche lui, quasi a sua insaputa,
vede la fecondità di un celibato, a volte faticoso da portare avanti, ma
prezioso e ricco nella sua trasparenza.
Non vorrei finire senza parlare di una cosa che mi
preoccupa, mi preoccupa abbastanza. Mi domando: la riforma che il Concilio ha
avviato, come va, fra voi? La pietà popolare è una grande ricchezza e dobbiamo
custodirla, accompagnarla affinché non si perda. Anche educarla. Su questo
leggete il n. 48 della Evangelii nuntiandi che ha piena
attualità, quello che San Paolo VI ci diceva sulla pietà popolare: liberarla da
ogni gesto superstizioso e prendere la sostanza che ha dentro. Ma la liturgia,
come va? E lì io non so, perché non vado a Messa in Sicilia e non so come
predicano i preti siciliani, se predicano come è stato suggerito nella Evangelii gaudium o se predicano in
modo tale che la gente esce a fare una sigaretta e poi torna… Quelle prediche
in cui si parla di tutto e di niente. Tenete conto che dopo otto minuti
l’attenzione cala, e la gente vuole sostanza. Un pensiero, un sentimento e
un’immagine, e quello se lo porta per tutta la settimana. Ma come celebrano? Io
non vado a Messa lì, ma ho visto delle fotografie. Parlo chiaro. Ma carissimi,
ancora i merletti, le bonete…, ma dove siamo? Sessant’anni dopo il Concilio! Un
po’ di aggiornamento anche nell’arte liturgica, nella “moda” liturgica! Sì, a
volte portare qualche merletto della nonna va, ma a volte. È per
fare un omaggio alla nonna, no? Avete capito tutto, no?, avete capito. È bello
fare omaggio alla nonna, ma è meglio celebrare la madre, la santa madre Chiesa,
e come la madre Chiesa vuole essere celebrata. E che la insularità non
impedisca la vera riforma liturgica che il Concilio ha mandato avanti. E non
rimanere quietisti.
Cari fratelli, vi ringrazio tanto della vostra visita. Vi
benedico e benedico le vostre comunità, benedico il loro cammino. Mi
raccomando: non dimenticatevi di pregare per me, perché ne ho bisogno.
Un’altra cosa… Questo non lo dico solo per la Sicilia,
questo è universale: una delle cose che più distruggono la vita ecclesiale, sia
la diocesi sia la parrocchia, è il chiacchiericcio, il chiacchiericcio che va
insieme all’ambizione. Vi daranno uno scritto che ha fatto un Nunzio Apostolico
sul chiacchiericcio, lo chiama “parola abusata”. Noi non riusciamo a mandare
via il chiacchiericcio: anche dopo una riunione: Ciao, ci salutiamo, e
incomincia: “Hai visto cosa ha detto quello, quell’altro, quell’altro…”. Il
chiacchiericcio è una peste che distrugge la Chiesa, distrugge le comunità,
distrugge l’appartenenza, distrugge la personalità. E mi piace tanto l’immagine
che ha messo nella copertina – poi lo vedrete perché ve ne daranno uno per
ciascuno – c’è il segno del dito, che è il segno dell’identità, e uno che lo
sfila, perché con il chiacchiericcio ti toglie l’identità, ti toglie l’appartenenza:
questo fa il chiacchiericcio, con noi. Scusatemi se predico queste cose che
sembrano da prima Comunione, ma sono cose essenziali: non dimenticarle!
Adesso vi darò la benedizione.
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