In seguito al post La Gioia del Vangelo: MERLETTI E "BONETE" /PAPA FRANCESCO AI VESCOVI E PRETI DI SICILIA, ecco i n. 47 e 48 della Evangelii Nuntiandi (Annunciando il Vangelo, 8 dicembre 1975) il cui principale redattore fu il vescovo di Cracovia, Karol Wojtyla. Papa Francesco ha citato il n. 48 ma credo che il numero precedente permette meglio di comprendere il suo pensiero, mentre il tono di Paolo VI è positivo e potrebbe non far cogliere l’esigenza di purificare la pietà popolare.
IL RUOLO DEI SACRAMENTI
47. Peraltro
non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l'evangelizzazione non si
esaurisce nella predicazione e nell'insegnamento di una dottrina. Essa deve
raggiungere la vita: la vita naturale alla quale dà un senso nuovo, grazie alle
prospettive evangeliche che le apre; e la vita soprannaturale, che non è la
negazione, ma la purificazione e la elevazione della vita naturale. Questa vita
soprannaturale trova la sua espressione vivente nei sette Sacramenti e nella
loro mirabile irradiazione di grazia e di santità.
L'evangelizzazione dispiega così tutta la sua ricchezza quando realizza il legame più intimo e, meglio ancora, una intercomunicazione ininterrotta, tra la Parola e i Sacramenti. In un certo senso, è un equivoco l'opporre, come si fa talvolta, l'evangelizzazione e la sacramentalizzazione. È vero che un certo modo di conferire i Sacramenti, senza un solido sostegno della catechesi circa questi medesimi Sacramenti e di una catechesi globale, finirebbe per privarli in gran parte della loro efficacia. Il compito dell'evangelizzazione è precisamente quello di educare nella fede in modo tale che essa conduca ciascun cristiano a vivere i Sacramenti come veri Sacramenti della fede, e non a riceverli passivamente, o a subirli.
48. Qui noi
tocchiamo un aspetto dell'evangelizzazione che non può lasciare insensibili.
Vogliamo parlare di quella realtà che si designa spesso oggi col termine di
religiosità popolare.
Sia nelle regioni in cui la Chiesa è
impiantata da secoli, sia là dove essa è in via di essere impiantata, si trovano
presso il popolo espressioni particolari della ricerca di Dio e della fede. Per
lungo tempo considerate meno pure, talvolta disprezzate, queste espressioni
formano oggi un po' dappertutto l'oggetto di una riscoperta. I Vescovi ne hanno
approfondito il significato, nel corso del recente Sinodo, con un realismo
pastorale e uno zelo notevoli.
La religiosità popolare, si può dire, ha
certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte
deformazioni della religione, anzi di superstizioni. Resta spesso a livello di
manifestazioni cultuali senza impegnare un'autentica adesione di fede. Può
anche portare alla formazione di sètte e mettere in pericolo la vera comunità
ecclesiale.
Ma se è ben orientata, soprattutto
mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta
una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci
di generosità e di sacrificio fino all'eroismo, quando si tratta di manifestare
la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità,
la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori
raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce
nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di
questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri «pietà popolare», cioè religione
del popolo, piuttosto che religiosità.
La carità pastorale deve suggerire a tutti quelli, che il Signore ha posto come capi di comunità ecclesiali, le norme di comportamento nei confronti di questa realtà, così ricca e insieme così vulnerabile. Prima di tutto, occorre esservi sensibili, saper cogliere le sue dimensioni interiori e i suoi valori innegabili, essere disposti ad aiutarla a superare i suoi rischi di deviazione. Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo.
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