Nur el Sultan, capitale del Kazakistan luogo dell'incontro dei leader religiosi. |
Preziose come sempre le riflessioni di don Stefano Caprio. Questa volta sulla non partecipazione del Patriarca Kirill all'incontro con Papa Francesco e gli altri leader religiosi in Kazakistan (che Putin vorrebbe annettere) e la situazione dei cattolici in Russia.
27/08/2022, 09.00 MONDO RUSSO
Il no di Kirill
e ciò che resta del dialogo
Sulla mancata disponibilità all'incontro
in Kazakistan ha pesato anche il timore che a Nur-Sultan qualche voce dal mondo
ortodosso potesse far risuonare le accuse di "filetismo".
Ma la cultura e la tradizione russa sono un patrimonio universale
dell’intera cristianità. E quando (speriamo il più presto
possibile) taceranno le bombe per ricostruire, l'abbraccio tra
Francesco e Kirill sarà quanto mai necessario.
Non ci sarà, dunque, il secondo storico incontro tra
papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill, già più volte rimandato in
quest’anno di guerra e “di pazzia”, come continua a ripetere il pontefice. I
due leader si sarebbero dovuti incrociare a Nur-Sultan, la capitale del Paese
“neutro” del Kazakistan, al Congresso mondiale delle religioni del 14-15
settembre, ma da Mosca hanno fatto sapere che Kirill non parteciperà all’assise
ecumenica, come aveva comunicato in un primo tempo.
L’incontro sarebbe potuto rimanere soltanto formale,
sedendosi accanto agli altri rappresentanti delle religioni, senza occupare
tutta la scena con un colloquio a due. Proprio questa dimensione è stata
considerata inadeguata dagli ortodossi russi, che hanno motivato la rinuncia in
quanto il nuovo abbraccio, dopo quello di Cuba nel 2016, “ha bisogno di una
preparazione molto dettagliata”, e non può ridursi a una stretta di mano e una
foto di gruppo. In realtà tale motivazione riecheggia le ritrosie patriarcali
della prima metà degli anni Duemila, quando il dialogo tra Mosca e Roma si era
praticamente interrotto.
Anche allora si parlava di “preparazione da completare” e di “problemi da risolvere”, riferendosi ossessivamente alle accuse di proselitismo cattolico sui territori della Russia e di uniatismo greco-cattolico su quelli ucraini, che il patriarcato riteneva ostacoli alle relazioni con la Santa Sede. Gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, e tutti quelli di Benedetto XVI, hanno del resto coinciso con la restaurazione dell’Ortodossia come “religione di Stato” nel nuovo regime putiniano, e l’espulsione di diversi missionari dalla Russia nel 2002, come ritorsione per l’istituzione formale di quattro diocesi cattoliche russe, segnò il congelamento dei rapporti per molto tempo.
La questione del proselitismo venne gradualmente
risolta, dopo l’allontanamento dei vescovi e sacerdoti cattolici più attivi,
lasciando in Russia quelli più prudenti e “diplomatici”. Le attività dei
cattolici vennero sottoposte al vaglio di una commissione mista
cattolico-ortodossa, un’idea che Kirill aveva proposto ancora da metropolita
“degli esteri” all’inizio degli anni ’90, ma che non era stata raccolta dal
Vaticano. Le strutture cattoliche in Russia sono rimaste quelle aperte nel
periodo eltsiniano, anzi diverse di esse sono state chiuse o ridotte al minimo
delle iniziative: le opere educative e scolastiche sono state quasi
completamente depotenziate, di fatto esiste una sola scuola privata cattolica
dei gesuiti nella lontana Tomsk siberiana, mentre soprattutto a Mosca e San
Pietroburgo i cattolici rimangono confinati entro le mura degli edifici
parrocchiali, al massimo facendo qualche centinaio di metri in strada durante
la processione del Corpus Domini.
La leale disposizione dei cattolici in Russia nei
confronti della Chiesa ortodossa e delle strutture statali ha rasserenato la
situazione all’interno del Paese, dove non si registrano tensioni a livello
locale e spesso vi è un clima di fraterna vicinanza, se non proprio di
collaborazione. Le parrocchie latine sono frequentate da fedeli di origine
polacca, tedesca e lituana, ma anche da molti stranieri, come gli africani e i
sudamericani che vivono in Russia per studio e lavoro (eredità dei tempi
sovietici), oltre ad armeni cattolici fuggiti dalle guerre caucasiche degli
anni ’90 (sono quella parte della popolazione armena di montagna che aveva
abbracciato il cattolicesimo sotto la protezione dei francesi e degli austriaci
ancora ai tempi del genocidio di inizio ‘900, i cosiddetti “armeni franchi”,
molto attivi nella vita del cattolicesimo russo). In trent’anni la comunità cattolica
russa è comunque cresciuta in consapevolezza e maturità di fede, lasciando
sullo sfondo i connotati etnici che ne giustificano la presenza storica nel
Paese.
Ci sono ancora casi di cattolici attivi in campo
sociale e politico, o nel mondo della cultura e dell’informazione, ma anche qui
senza particolari frizioni con la maggioranza nazional-ortodossa che sostiene
il sistema putiniano. In questi giorni un deputato municipale cattolico della
periferia di Mosca, il liberale Konstantin Jankauskas, è stato multato per aver diffuso su Facebook la preghiera mariana di papa Francesco per
la pace in Ucraina, considerata “discredito delle forze armate”; ma allo stesso
tempo un ben più influente deputato cattolico della Duma di Stato, Anatolij
Vybornyj, che frequenta regolarmente le Messe giungendo in pompa magna con
l’auto ufficiale, ha esposto anche in cattedrale i suoi manifesti elettorali
con la Z putiniana e una scritta che elogia il partito di Russia Unita, “che è
diventato un grande magnete che attrae le persone che intendono aiutare la
Patria russa”.
Ben diversa la situazione a riguardo degli “uniati”,
considerati dal patriarcato di Mosca i nemici principali sul “territorio
canonico” ortodosso, ispiratori della rivoluzione del Maidan di Kiev nel 2014 e
dell’ideologia “neonazista” ucraina, ricordando il collaborazionista Stepan
Bandera dei tempi di Hitler, che era appunto un greco-cattolico. La Santa Sede
ha mantenuto un atteggiamento prudente nei loro confronti, facendo chiaramente
capire di non sostenere gli eccessi anti-russi di una Chiesa comunque autonoma
nella propria amministrazione, come accade per le Chiese cattoliche di rito
orientale. D’altra parte, il Santo Padre ha manifestato piena solidarietà in
questi sei mesi di guerra a tutte le vittime, facendo sentire in più occasioni
la sua vicinanza ai greco-cattolici, a cominciare dall’arcivescovo maggiore
Svjatoslav Ševčuk, che il papa conosce dai tempi dell’Argentina e che si
mantiene in contatto quotidiano con gli organismi della Santa Sede.
Al di là delle relazioni con i cattolici e con il Papa
stesso, il problema del patriarca è il suo sempre più totale isolamento anche
nel mondo ortodosso, dopo aver rotto completamente i rapporti con il patriarca
di Costantinopoli per l’autocefalia ucraina, e soprattutto dopo aver
scandalizzato il mondo intero con il sostegno esplicito e “metafisico” alla
guerra di Putin. Molti teologi ortodossi di varie parti del mondo accusano il
patriarcato di Mosca di eresia “filetista”, come viene chiamato il nazionalismo
religioso, che in questo caso è addirittura proiettato su dimensioni imperiali.
Dalla Chiesa autocefala di Kiev, insieme a molti
vescovi e sacerdoti, il metropolita Epifanyj chiede ripetutamente al
patriarcato ecumenico di sottoporre Kirill a un processo canonico per privarlo
del seggio patriarcale, ed è evidente che il capo degli ortodossi russi non
abbia intenzione di esporsi in contesti in cui qualcuno potrebbe far risuonare
accuse e pretese nei suoi confronti, come sarebbe potuto accadere anche a
Nur-Sultan. Del resto, il presidente kazaco Tokaev non ha avuto timore di rinfacciare le
mire espansioniste allo stesso Putin, che vorrebbe annettersi anche il
Kazakistan, in parallelo orientale con l’Ucraina.
Dopo l’incontro dell’Avana, i cattolici e gli
ortodossi russi avevano concordato di riprendere una collaborazione fattiva nel
campo umanitario e culturale, senza soffermarsi sulle diatribe dottrinali e
storiche, da lasciare al passato. Ora tornano a prevalere le diffidenze e i
rancori, ma si spera che la porta del dialogo non venga chiusa completamente:
la cultura e la tradizione ortodossa russa sono un patrimonio universale
dell’intera cristianità, e non si può lasciare questi tesori in balia delle
mire dei potenti. Se anche i russi arruolano la Trinità di Rublev nel reggimento dei
combattenti contro l’Occidente e il mondo intero, questo non significa che la
sacra icona perda il suo carattere di simbolo della fede per tutti i popoli.
E soprattutto, la cooperazione umanitaria sarà la vera
dimensione delle relazioni tra i cristiani di ogni confessione, e tutti gli
uomini di buona volontà, quando taceranno le bombe e i missili - speriamo il
più presto possibile - e si dovranno ricostruire le case, le piazze e le anime.
Allora sì che servirà un nuovo abbraccio tra Francesco e Kirill, e non più in
luoghi neutri e lontani, ma nel cuore della terra martoriata di Kiev, o del
Cremlino pacificato di Mosca, o sotto la cupola benedicente di San Pietro.
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