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lunedì 29 agosto 2022

IL NO DI KIRILL E CIO' CHE RESTA DEL DIALOGO / di d. Stefano Caprio ("Mondo Russo", AsiaNews)

 

Nur el Sultan, capitale del Kazakistan
luogo dell'incontro dei leader religiosi.

Preziose come sempre le riflessioni di don Stefano Caprio. Questa volta sulla non partecipazione del Patriarca Kirill all'incontro con Papa Francesco e gli altri leader religiosi in Kazakistan (che Putin vorrebbe annettere) e la situazione dei cattolici in Russia.

27/08/2022, 09.00   MONDO RUSSO

Il no di Kirill e ciò che resta del dialogo

Sulla mancata disponibilità all'incontro in Kazakistan ha pesato anche il timore che a Nur-Sultan qualche voce dal mondo ortodosso potesse far risuonare le accuse di "filetismo". Ma la cultura e la tradizione russa sono un patrimonio universale dell’intera cristianità. E quando (speriamo il più presto possibile) taceranno le bombe per ricostruire, l'abbraccio tra Francesco e Kirill sarà quanto mai necessario.

Non ci sarà, dunque, il secondo storico incontro tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill, già più volte rimandato in quest’anno di guerra e “di pazzia”, come continua a ripetere il pontefice. I due leader si sarebbero dovuti incrociare a Nur-Sultan, la capitale del Paese “neutro” del Kazakistan, al Congresso mondiale delle religioni del 14-15 settembre, ma da Mosca hanno fatto sapere che Kirill non parteciperà all’assise ecumenica, come aveva comunicato in un primo tempo.

L’incontro sarebbe potuto rimanere soltanto formale, sedendosi accanto agli altri rappresentanti delle religioni, senza occupare tutta la scena con un colloquio a due. Proprio questa dimensione è stata considerata inadeguata dagli ortodossi russi, che hanno motivato la rinuncia in quanto il nuovo abbraccio, dopo quello di Cuba nel 2016, “ha bisogno di una preparazione molto dettagliata”, e non può ridursi a una stretta di mano e una foto di gruppo. In realtà tale motivazione riecheggia le ritrosie patriarcali della prima metà degli anni Duemila, quando il dialogo tra Mosca e Roma si era praticamente interrotto.

Anche allora si parlava di “preparazione da completare” e di “problemi da risolvere”, riferendosi ossessivamente alle accuse di proselitismo cattolico sui territori della Russia e di uniatismo greco-cattolico su quelli ucraini, che il patriarcato riteneva ostacoli alle relazioni con la Santa Sede. Gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, e tutti quelli di Benedetto XVI, hanno del resto coinciso con la restaurazione dell’Ortodossia come “religione di Stato” nel nuovo regime putiniano, e l’espulsione di diversi missionari dalla Russia nel 2002, come ritorsione per l’istituzione formale di quattro diocesi cattoliche russe, segnò il congelamento dei rapporti per molto tempo.

La questione del proselitismo venne gradualmente risolta, dopo l’allontanamento dei vescovi e sacerdoti cattolici più attivi, lasciando in Russia quelli più prudenti e “diplomatici”. Le attività dei cattolici vennero sottoposte al vaglio di una commissione mista cattolico-ortodossa, un’idea che Kirill aveva proposto ancora da metropolita “degli esteri” all’inizio degli anni ’90, ma che non era stata raccolta dal Vaticano. Le strutture cattoliche in Russia sono rimaste quelle aperte nel periodo eltsiniano, anzi diverse di esse sono state chiuse o ridotte al minimo delle iniziative: le opere educative e scolastiche sono state quasi completamente depotenziate, di fatto esiste una sola scuola privata cattolica dei gesuiti nella lontana Tomsk siberiana, mentre soprattutto a Mosca e San Pietroburgo i cattolici rimangono confinati entro le mura degli edifici parrocchiali, al massimo facendo qualche centinaio di metri in strada durante la processione del Corpus Domini.

La leale disposizione dei cattolici in Russia nei confronti della Chiesa ortodossa e delle strutture statali ha rasserenato la situazione all’interno del Paese, dove non si registrano tensioni a livello locale e spesso vi è un clima di fraterna vicinanza, se non proprio di collaborazione. Le parrocchie latine sono frequentate da fedeli di origine polacca, tedesca e lituana, ma anche da molti stranieri, come gli africani e i sudamericani che vivono in Russia per studio e lavoro (eredità dei tempi sovietici), oltre ad armeni cattolici fuggiti dalle guerre caucasiche degli anni ’90 (sono quella parte della popolazione armena di montagna che aveva abbracciato il cattolicesimo sotto la protezione dei francesi e degli austriaci ancora ai tempi del genocidio di inizio ‘900, i cosiddetti “armeni franchi”, molto attivi nella vita del cattolicesimo russo). In trent’anni la comunità cattolica russa è comunque cresciuta in consapevolezza e maturità di fede, lasciando sullo sfondo i connotati etnici che ne giustificano la presenza storica nel Paese.

Ci sono ancora casi di cattolici attivi in campo sociale e politico, o nel mondo della cultura e dell’informazione, ma anche qui senza particolari frizioni con la maggioranza nazional-ortodossa che sostiene il sistema putiniano. In questi giorni un deputato municipale cattolico della periferia di Mosca, il liberale Konstantin Jankauskas, è stato multato per aver diffuso su Facebook la preghiera mariana di papa Francesco per la pace in Ucraina, considerata “discredito delle forze armate”; ma allo stesso tempo un ben più influente deputato cattolico della Duma di Stato, Anatolij Vybornyj, che frequenta regolarmente le Messe giungendo in pompa magna con l’auto ufficiale, ha esposto anche in cattedrale i suoi manifesti elettorali con la Z putiniana e una scritta che elogia il partito di Russia Unita, “che è diventato un grande magnete che attrae le persone che intendono aiutare la Patria russa”.

Ben diversa la situazione a riguardo degli “uniati”, considerati dal patriarcato di Mosca i nemici principali sul “territorio canonico” ortodosso, ispiratori della rivoluzione del Maidan di Kiev nel 2014 e dell’ideologia “neonazista” ucraina, ricordando il collaborazionista Stepan Bandera dei tempi di Hitler, che era appunto un greco-cattolico. La Santa Sede ha mantenuto un atteggiamento prudente nei loro confronti, facendo chiaramente capire di non sostenere gli eccessi anti-russi di una Chiesa comunque autonoma nella propria amministrazione, come accade per le Chiese cattoliche di rito orientale. D’altra parte, il Santo Padre ha manifestato piena solidarietà in questi sei mesi di guerra a tutte le vittime, facendo sentire in più occasioni la sua vicinanza ai greco-cattolici, a cominciare dall’arcivescovo maggiore Svjatoslav Ševčuk, che il papa conosce dai tempi dell’Argentina e che si mantiene in contatto quotidiano con gli organismi della Santa Sede.

Al di là delle relazioni con i cattolici e con il Papa stesso, il problema del patriarca è il suo sempre più totale isolamento anche nel mondo ortodosso, dopo aver rotto completamente i rapporti con il patriarca di Costantinopoli per l’autocefalia ucraina, e soprattutto dopo aver scandalizzato il mondo intero con il sostegno esplicito e “metafisico” alla guerra di Putin. Molti teologi ortodossi di varie parti del mondo accusano il patriarcato di Mosca di eresia “filetista”, come viene chiamato il nazionalismo religioso, che in questo caso è addirittura proiettato su dimensioni imperiali.

Dalla Chiesa autocefala di Kiev, insieme a molti vescovi e sacerdoti, il metropolita Epifanyj chiede ripetutamente al patriarcato ecumenico di sottoporre Kirill a un processo canonico per privarlo del seggio patriarcale, ed è evidente che il capo degli ortodossi russi non abbia intenzione di esporsi in contesti in cui qualcuno potrebbe far risuonare accuse e pretese nei suoi confronti, come sarebbe potuto accadere anche a Nur-Sultan. Del resto, il presidente kazaco Tokaev non ha avuto timore di rinfacciare le mire espansioniste allo stesso Putin, che vorrebbe annettersi anche il Kazakistan, in parallelo orientale con l’Ucraina.

Dopo l’incontro dell’Avana, i cattolici e gli ortodossi russi avevano concordato di riprendere una collaborazione fattiva nel campo umanitario e culturale, senza soffermarsi sulle diatribe dottrinali e storiche, da lasciare al passato. Ora tornano a prevalere le diffidenze e i rancori, ma si spera che la porta del dialogo non venga chiusa completamente: la cultura e la tradizione ortodossa russa sono un patrimonio universale dell’intera cristianità, e non si può lasciare questi tesori in balia delle mire dei potenti. Se anche i russi arruolano la Trinità di Rublev nel reggimento dei combattenti contro l’Occidente e il mondo intero, questo non significa che la sacra icona perda il suo carattere di simbolo della fede per tutti i popoli.

E soprattutto, la cooperazione umanitaria sarà la vera dimensione delle relazioni tra i cristiani di ogni confessione, e tutti gli uomini di buona volontà, quando taceranno le bombe e i missili - speriamo il più presto possibile - e si dovranno ricostruire le case, le piazze e le anime. Allora sì che servirà un nuovo abbraccio tra Francesco e Kirill, e non più in luoghi neutri e lontani, ma nel cuore della terra martoriata di Kiev, o del Cremlino pacificato di Mosca, o sotto la cupola benedicente di San Pietro.

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