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martedì 7 marzo 2023

"CHE L'UOMO DUNQUE ABBIA L'AUDACIA DELLA PROPRIA RAGIONE" / Dio, la Ragione e la Fede, Paolo VI, Udienza Generale del 2 sett. 1970.



Scrivendo i post precedenti sull'angoscia che si genera nelle persone per i vari pericoli che li circondano o potrebbero circondarli ( 
La Gioia del Vangelo: AGLI AMICI TORMENTATI DALLA PAURA DEL MALE 1/ 3 ; La Gioia del Vangelo: AGLI AMICI TORMENTATI DALLA PAURA DEL MALE 2/3 ; La Gioia del Vangelo: AGLI AMICI TORMENTATI DALLA PAURA DEL MALE 3/3 ) mi sono imbattuto in questo meraviglioso testo di Papa Paolo VI. Vale la pena leggerlo e meditarlo con attenzione, senza lasciarsi fermare da qualche difficoltà che possa venire dal suo uso di alcuni "vocaboli eletti", come per esempio "impreteribile" che finora non conoscevo. Il ragionamento invece impegna la nostra attenzione ma non più di tanto e vale la pena fare un piccolo sforzo. In fondo è tutto molto semplice e spero che quello che ho scritto prima abbia familiarizzato con la problematica che affronta magistralmente Paolo VI.

PAOLO VI 

UDIENZA GENERALE 

Mercoledì, 2 settembre 1970 

 Ampia e meravigliosa la conoscenza di Dio.

 Noi insistiamo sul tema della ricerca di Dio. Non è per evadere ai problemi gravi e incalzanti del momento storico presente, ai quali la nostra attenzione è parimente e assiduamente rivolta, in altra sede e in altro modo; ma perché pensiamo che la questione della nostra mentalità circa la religione è sempre prioritaria, non solo in se stessa, per le realtà somme a cui si riferisce: Dio e l’uomo, ma altresì per le conseguenze teoriche e pratiche, che dipendono da questa prima questione: essa è il punto di sospensione di tutto il sistema ideologico umano; e siccome oggi negarla è di moda, trascurarla è abitudine, ignorarla (con tanto accanito odierno secolarismo) è quasi d’obbligo, quasi difesa d’una conquistata emancipazione, noi crediamo doveroso e interessante farne parola, ancora, ancora una volta: dobbiamo ricercare Dio. È strana pretesa di tanta gente sentenziare su questo nome sommo e misterioso di Dio, come se ne conoscessero il vero significato - vuoto, falso, dubbio, immenso, impreteribile, che sia - senza mai averlo onestamente cercato, coscienziosamente studiato: qual è la scienza, di cui oseremmo parlare, senza prima averla studiata, o almeno ammessa sulla parola di una testimonianza competente? 

La ricerca di Dio! La nostra intenzione sarebbe apostolica; cioè vorrebbe riferirsi alle condizioni spirituali dell’opinione pubblica, al modo comune di pensare della gente, degli uomini d’oggi; ma ci vediamo obbligati, per rigore di metodo, di sostare sugli aspetti personali che la ricerca di Dio presenta, non certo per farne qui un’esposizione accurata, ma solo per indicarne alcuni, a scopo di stimolo a qualche utile riflessione. Domandiamoci dunque : come si cerca Dio? La domanda dà le vertigini. Ma facciamo subito uno sforzo per metterci calmi, cioè per disporre il nostro spirito all’impiego ordinato ed efficiente delle proprie facoltà, per sperimentare la loro capacità a questo atto estremamente impegnativo della ricerca di Dio. Dio non è evidente. Se credessimo che lo fosse per noi, con l’uso superficiale e intuitivo delle nostre facoltà conoscitive, ci illuderemmo, Questo spiega perché molti, moltissimi non credono in Lui. Le condizioni mentali dell’uomo moderno non sono abitualmente predisposte né ad una cosciente ricerca, né a quella conoscenza di Dio, ch’è a noi possibile. Abbiamo troppi elementi sensibili, figurativi, immaginativi, fantastici, rappresentativi nel nostro cervello per superare questa sfera di esperienza facile, piacevole, farraginosa e per cercare al di là e al di sopra di essa. 

Quando facciamo questo tentativo di chiederci la ragione, il significato, il valore di questa multiforme e comoda esperienza, siamo subito sopraffatti da una babele di idee e di nomi; la razionalità filosofica è così ricca e così confusa, che per molti oggi si contenta di ordinare storicamente le espressioni del pensiero umano, di collegarle, al più, con un filo di processo mentale; la storia del pensiero supplisce alla valutazione razionale e reale del pensiero stesso. E se poi invece impegniamo il pensiero nella esplorazione di ciò che chiamiamo reale, ci fermiamo, con senso giustificato di successo, alla razionalità scientifica: la scienza ci dà un duplice dominio, quello d’una conoscenza sicura delle cose, e quello del loro uso pratico, tecnico, economico: grande conquista, ma non sufficiente all’insaziabile aspirazione della ragione, la quale vuole sapere di più: non le basta sapere come sono le cose, vorrebbe sapere il loro perché. E allora arriviamo a questa prima conclusione, a cui, pensiamo, nessuno dovrebbe opporsi: diamo alla ragione la sua linea, il suo movimento naturale, la sua forza, la sua sanità, la sua funzione piena e superiore; ed essa ci porterà a quella conoscenza riflessa di Dio, della quale parla S. Paolo: dalle cose visibili si può avere una certa, ma sicura conoscenza dell’invisibile Iddio (Rom. 1. 20); come ce ne dà conferma il Concilio Vaticano I, che rivendica appunto alla ragione umana la capacità di conoscere qualche cosa di Dio mediante la conoscenza delle cose create (DENZ.-SCH., 3004). 

In altri termini: bisogna usare bene della ragione, bisogna restituirle un funzionamento logico davvero normale ed efficace, bisogna restituirle fiducia. Non dobbiamo abusare capricciosamente di questo dono, di questo occhio fatto per conquistare la verità. La ragione ha una funzione insostituibile nella religione. Essa vi ha un posto d’onore, un impiego di alto grado. Come uomini, dobbiamo esserne fieri; come religiosi, guardinghi e umili: la ragione è uno strumento preziosissimo e delicato, ma valido e potente, sempre progrediente. Dice bene il P. De Lubac: «Che l’uomo, dunque, abbia l’audacia della propria ragione! . . . Quali si siano i meandri percorsi dal suo pensiero, sappia egli alla fine risalire alla Sorgente, sappia raggiungere il punto focale!» (Sur les chemins de Dieu, p. 15). Dove arriverà la nostra ricerca, condotta con la pura ragione naturale? Arriverà sì, ad una altissima quota, oltre la linea dell’agnosticismo; ma il traguardo sarà piuttosto un desiderio, che un soddisfacimento. Il suo sforzo sarà piuttosto un tentativo, che una conquista. Si tradurrà in un’espressione ben nota nelle scuole di religione: intellectus quaerens fidem, l’intelletto cerca la fede, cioè una conoscenza, che gli sia concessa per rivelazione. Entriamo nell’ordine gratuito del soprannaturale. «Se Dio non si fa maestro, nessuno può conoscere Dio . . . Era impossibile senza Dio imparare Dio; mediante il suo Verbo Egli insegna agli uomini a conoscere Dio», così S. Ireneo († 200) (Adv. Haer., IV, 6, 4; 5, 1; PG 7, 988), ricordando le parole di Cristo: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo» (Matth. 11, 27); «Dio nessuno lo vide mai; il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Egli lo manifesterà» (Io. 1, 18). S. Tommaso apre la sua Somma Teologica affermando ch’«era necessario per la salvezza umana una certa dottrina secondo una rivelazione divina oltre le scienze naturali esplorate dalla ragione umana». Cristo è il Maestro, il rivelatore, la luce: «Se rimarrete nella mia parola, Egli disse, sarete veramente miei discepoli, e conoscerete la verità; e la verità vi libererà» (Io. 8, 31-32). 

Di qui la fede, e di qui un successivo ripensamento, un atto riflesso della ragione sopra questa nuova e superiore scienza di Dio; ecco la teologia: fides quaerens intellectum, secondo la celebre espressione di S. Anselmo d’Aosta, Arcivescovo di Canterbury († 1109). La fede ha bisogno del servizio della ragione; essa non la soffoca, come spesso si dice; non la sostituisce (Cfr. DENZSCH., 2751; 2756; 2813); ma la associa all’accettazione della Parola di Dio, la innalza e la impegna alla più ardua ed esaltante fatica: ascoltare, per quanto è possibile, capire, esplorare ed esprimere la rivelazione, come lume, come principio logico e dialettico della più profonda e più vitale razionalità: credo ut intelligam. L’intelligenza è assunta al suo supremo cimento, agevolata dal concorso di tutto l’uomo, delle sue virtù morali che rendono possibile passare dalla fase speculativa del pensiero a quella vitale; fare della verità divina un principio di vita umano-divina. Non intratur in veritatem, nisi per caritatem, non si entra nella verità se non con la carità, scrive S. Agostino (Contra Faustum, 41, 32, 18; PL 42, 507). Vedete, Figli carissimi, come la ricerca di Dio si fa ampia e meravigliosa, e come essa non trascina i nostri passi in speculazioni vane ed astruse, ma interpreta, esercita e magnifica le più profonde e più autentiche aspirazioni del nostro spirito. E nessuno vi è escluso. I piccoli sono in prima fila a questa scuola di Dio (Cfr. Matth. 11. 25). 

Con la Nostra Apostolica Benedizione. 


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