26/11/2022, 09.00
MONDO RUSSO
La Russia dopo
Putin
di Stefano Caprio
Che appoggino incondizionatamente il
patriottismo militante, che sperino soltanto nella fine dell’incubo o
cerchino timidamente di opporsi rischiando il lager e l’espulsione dalla vita
sociale in ogni altro modo, tutti i russi guardano al futuro con un senso di
smarrimento e incertezza, rabbia e senso di colpa, frustrazione e orrore del
vuoto.
Al compimento dei nove mesi di guerra in Ucraina,
l’azzardo di Putin e della sua casta al potere non ha partorito il risultato
sperato, quello della rinascita della grande Russia, chiamata a stupire il
mondo con la sua forza militare e la sua superiorità morale. Il buio e il gelo
sono calati non soltanto sulle strade di Kiev e di Leopoli, devastate dalle
bombe iraniane rimediate dai russi per riempire i propri arsenali, ma
soprattutto sui cuori stessi del popolo russo, costretto a lodare in pubblico
le follie del Cremlino, ma ormai disperato per il proprio futuro.
Da tutto il mondo, cominciando dalla sede papale di
Roma, si chiede di trovare il modo per fermare la tragedia bellica e accordarsi
almeno su qualche forma di armistizio, perché le conseguenze della guerra si
fanno sempre più insopportabili non solo per i martoriati ucraini, ma per tutte
le nazioni coinvolte, dall’Europa all’America e alla Cina. Eppure la vera
questione non riguarda tanto, o soltanto, la fine delle ostilità e dei
bombardamenti, ma ciò che sarà dopo, a tutte le latitudini, e soprattutto in
Russia.
L’Ucraina è senz’altro il Paese che ha subito le maggiori perdite, ma paradossalmente ha anche ottenuto i maggiori guadagni. Ha perso la vita di tantissime persone, soldati e civili, bambini e anziani, ha perso la casa, la luce e il riscaldamento, ampi territori occupati e “annessi”, costretta a evacuare moltissimi cittadini in un esodo di massa, da cui non si sa quanti e quando torneranno a casa, ammesso che la trovino ancora in piedi. Allo stesso tempo ha guadagnato finalmente, dopo tanti secoli e tanti tentativi falliti, la coscienza di essere una nazione, con i propri ideali e i propri eroi, le proprie città-simbolo e i sentimenti del coraggio nella resistenza e nella difesa attiva delle proprie terre, dei propri interessi, del proprio popolo. Ha guadagnato l’appoggio e la solidarietà dell’Europa, di cui non è più solo una terra di confine sconosciuta, ma il cuore stesso di un continente che ha sempre amato la Russia con tutte le sue contraddizioni, e continua a desiderarla, ma ora considera l’Ucraina il centro attorno a cui riunire le sue tante anime di oriente e occidente, settentrione e mezzogiorno.
L’Ucraina sa di avere un futuro, difficile e pieno di
insidie, di doversi ricostruire confidando nell’appoggio dell’intero Occidente
e soprattutto degli Stati Uniti, dove la grande diaspora ucraina ha messo
radici nel lungo inverno sovietico. Sa di essere destinata a mantenere alta la
vigilanza armata, come un nuovo Israele circondato dai nemici, e dovrà sempre
difendersi dall’orso russo che ruggisce fuori dalla sua porta. I Paesi vicini
come la Polonia, la Romania, l’Ungheria, la Moldavia, la Slovacchia e i Baltici
sono ormai fratelli di sangue e di vita, non più frammenti di un “ex-mondo” totalitario,
ma anima orientale di un continente ricco di storia, di cultura e di fede
religiosa, oltre che di mezzi finanziari e potenzialità tecnologiche. Con la
resistenza dell’Ucraina è nata una nuova Europa orientale, confine che si
staglia dal mar Baltico al mar Nero, di fronte alle minacce dell’Eurasia
barbarica.
La Russia è invece di fronte al baratro
dell’isolamento e del risentimento, della recessione economica e
dell’insignificanza politica, del disprezzo e della perplessità del resto del
mondo, compresi i Paesi “amici per l’eternità” come la grande Cina, l’altezzosa
Turchia e l’immensa India, che fingono di accarezzare il cane rabbioso,
tenendosene alla larga il più possibile. Sia coloro che appoggiano
incondizionatamente il patriottismo militante, sia i tanti che sperano soltanto
nella fine dell’incubo, o cercano timidamente di opporsi rischiando il lager e
l’espulsione dalla vita sociale in ogni altro modo, tutti i russi guardano al
futuro con un senso di smarrimento e incertezza, rabbia e senso di colpa,
frustrazione e orrore del vuoto.
Non è la prima volta nella sua storia che la Russia si
trova ad affrontare la perdita di sé stessa, e la necessità di attraversare un
gelido deserto senza vedere vie d’uscita. Nei mille anni della sua storia, la
successione di morti e rinascite è stata piuttosto la dimensione che tutte le
generazioni dei russi hanno dovuto affrontare, molto più di altre regioni del
mondo funestate dai conflitti e dalle catastrofi, dal Mediterraneo al Medio
Oriente, alle guerre del nord a quelle coloniali dei mari e degli oceani. I due
secoli del “giogo tartaro” medievale impedirono all’antica Rus’ di essere
protagonista della rinascita europea dopo la fine degli imperi antichi,
condannandola a un “ritardo di civiltà” che in buona parte alimenta i complessi
d’inferiorità e di rancore che ancora oggi esplodono nel sangue dei russi. Il
Seicento dei “Torbidi” ha disintegrato quello che si era tentato di costruire
nel secolo precedente, quello del sogno della “Terza Roma”. I settant’anni del
totalitarismo sovietico hanno prodotto un effetto simile, se non superiore,
alle tante scomparse e “stagnazioni” della Russia dei secoli precedenti.
Proprio durante il regime comunista, che ancora segna
in gran parte le coscienze dei russi, la dinamica di morte e resurrezione si è
ripetuta più volte, per l’impossibilità di realizzare l’ideale universale della
rivoluzione e del nuovo mondo di giustizia e di pace. La guerra civile
leninista sfociò nella timida economia di mercato, poi soffocata dal trentennio
staliniano, che sembrava aver raggiunto il successo sperato grazie alla
vittoria della guerra patriottica, e alla grande trasformazione industriale
realizzata grazie allo schiavismo dei prigionieri dei lager. Non a caso il
putinismo si propone come imitazione dello stalinismo, sia nel fervore
bellico-ideologico, sia nelle pretese universali ed economiche, accompagnate da
repressioni sempre più simili a quelle dell’Arcipelago Gulag. La morte di
Stalin non lasciò un paradiso realizzato, ma un inferno di oppressione da cui
liberarsi appena possibile, come tentò di fare il contraddittorio “disgelo
kruscioviano”, presto abortito per restaurare l’immobilismo e la dittatura
neo-stalinista del ventennio brezneviano. La guerra in Afghanistan costrinse la
Russia a cercare nuovamente sé stessa, nei maldestri tentativi della perestrojka gorbacioviana e della democrazia filo-occidentale eltsiniana, tanto
infelici da produrre un nuovo totalitarismo, nell’ortodossia militante di Putin
e Kirill.
I dioscuri del sovranismo dei fantomatici “valori
tradizionali”, lo zar e il patriarca, si sono di fatto espulsi da soli dalla
storia, e sopravvivono solo le loro tragiche maschere nelle esplosioni
isteriche delle bombe sull’Ucraina, sapendo di non aver più alcun ruolo da
svolgere nella storia russa e universale. Sia la società che la Chiesa russa si
chiedono come sarà possibile sostituirli, possibilmente entro i prossimi mesi,
ma se anche fosse tra diversi anni, le condizioni di fatto non cambierebbero,
allungando soltanto l’ennesima stagnazione.
Non esistono ad oggi vere alternative al presidente
Putin e al patriarca Kirill, nella politica civile ed ecclesiastica, che in
Russia sono inestricabilmente legate tra loro. Gli oppositori e i dissidenti
sono in lager o in esilio, e le tante degne personalità che compongono questa
“diaspora interna ed esterna” non hanno per ora la forza e le idee per proporre
un’alternativa. I militari, i governatori regionali, i ministri e tutta la
classe dirigente è allineata e sottomessa, per convinzione e per necessità, ai
voleri del bunker del Cremlino. E il fattore più preoccupante è che gli unici a
muoversi in prospettiva futura sono gli spiriti più fanatici e bellicosi, come
il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, o il “cuoco di Putin” Evgenij Prigožin.
Proprio il fondatore dell’efferata compagnia Wagner, i
mercenari che riproducono in forma estrema la brutalità degli spetsnaz sovietici, nelle ultime settimane ha deciso di rompere gli indugi, e
avviare una nuova formazione che sia in grado di affrontare il dopo-Putin
sempre più imminente. Prigožin sta pianificando la creazione di un “movimento
patriottico conservatore”, chiamato sulla stampa dei radikal-patrioty, intervenendo in pubblico in forme sempre più esplicite, dopo anni di
nascondimento nella “cucina” dietro le quinte del potere. In centri commerciali
acquistati o requisiti organizza convegni, mostre e sessioni di studio in cui
si accusano le élite al potere di essere troppo timide, si coltiva il
revanscismo più estremo e il senso della vendetta per gli insuccessi militari.
Dal Cremlino si moltiplicano i comunicati di smentita, secondo cui “Prigožin
non ha intenzione di formare un nuovo partito, ma si dedica a progetti sociali
di ampio respiro”, e anche i comunisti del Kprf assicurano che l’eventuale
partito di Prigožin “è destinato al fallimento”, formule che non fanno altro
che aumentare il senso di timore per quello che può avvenire realmente.
Il radicalismo patriottico non è altro che una forma
estrema di populismo, la dimensione in cui s’incagliano le politiche di tutti i
Paesi del mondo negli ultimi decenni, dopo l’esaurimento delle ideologie e la
presunta “fine della storia”. Si tratta invece di iniziare una nuova storia, in
Russia e non solo, cercando il coraggio per ricominciare con umiltà e apertura
ad ogni istanza, a cominciare da quella della pace, per trovare il senso della
solidarietà e della concordia, del dialogo e della ricostruzione dei mondi e
delle anime.
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