I giorni della
memoria
di Stefano Caprio
Celebrando il 4 novembre la torbida
memoria seicentesca, i russi trovano le ragioni per proseguire nella
grande guerra difensiva, ora di fatto impantanata nei fanghi tardo-autunnali
delle zone annesse. Ma invece di selezionare eventi passati di gloria imperiale,
sarebbe stato meglio non oscurare un’altra data simbolica: quella del 30
ottobre, la memoria dei dissidenti sovietici, oggi cancellata d’autorità.
MONDO RUSSO I giorni della memoria
Il 4 novembre la Russia ha celebrato la
sua principale festa nazionale, il Giorno dell’Unità Popolare (Den Narodnogo
Edinstva), che commemora gli eventi risalenti al 1612, quando fu dichiarata
la vittoria sugli invasori polacchi, e il regno dello zar di Moscovia fu
affidato alla nuova dinastia dei Romanov, che sostituì quella degli antichi
Rjurikidi. La retorica bellica di questi tempi non può che enfatizzare una
vicenda pur così oscura e controversa, che viene considerata la fine del
“periodo dei Torbidi” nel passaggio tra XVI e XVII secolo.
Quel cambio epocale metteva fine al sogno
della “Terza Roma” del primo zar Ivan il Terribile, che aveva dominato la scena
per cinquant’anni di regno, rovinando tutto con la follia autocratica e
poliziesca, e con insensate campagne belliche verso i territori baltici. È una
fase per molti aspetti simile a quella che stiamo vivendo oggi, dopo la fine
dell’impero sovietico novecentesco e i “torbidi” trentennali della nuova Russia
di Eltsyn e Putin, a cui si possono accostare diversi personaggi di quel
periodo. I Torbidi antichi si svilupparono attorno alle contraddizioni del
reggente-zar Boris Godunov, discendente della Opričnina, la guardia
imperiale di Ivan, madre di tutte le polizie politiche russe fino al Kgb/Fsb di
Putin.
Godunov è una figura cruciale della
storia russa, al punto da aver ispirato poemi e opere artistiche e musicali di
primaria importanza: dittatore e riformatore, visionario e costruttore di
città, ma anche accusato di infami tradimenti e abbandonato da tutti, fino a
morire per eccesso di cibo e alcool sulle terrazze del Cremlino, un po’ Eltsyn
e un po’ già Putin. Boris ebbe l’intuizione di elevare la sede ecclesiastica
moscovita al rango di patriarcato, costringendo nel 1589 il patriarca di
Costantinopoli Geremia II a firmare il decreto di istituzione della “Terza
Roma”, dopo averlo tenuto in ostaggio dorato al Cremlino per diversi mesi.
In seguito a tale decisione, il Seicento russo fu il secolo della sinfonia tra il trono e l’altare, una simbiosi tra politica e religione che si sarebbe ripetuta in toni simili solo nella Russia putiniana. Il patriarcato fu poi soppresso da Pietro il grande agli inizi del Settecento, e la Chiesa rimase asservita all’impero per i successivi secoli zaristi e anche nel periodo sovietico, che aveva formalmente restaurato il ruolo, ma non la libertà di azione dei patriarchi, ridotti al ruolo di “chierichetti” di Stalin e Brežnev. Durante i Torbidi, invece, prima si esaltò la figura del patriarca-martire Ermogen, fatto morire di fame in una fortezza dai polacchi invasori, e poi emerse il fondatore della nuova dinastia zarista, quel Fedor Romanov che era stato costretto a diventare monaco, rinchiudendo in una cella anche la moglie, e si prese la rivincita come patriarca Filaret, imponendo sul trono il figlio Mikhail, il primo zar della nuova era.
Per una ventina d’anni lo zar-figlio
rimase sottomesso al patriarca-padre, e nel corso del secolo la situazione ebbe
a ripetersi, in particolare con il patriarca Nikon, di cui l’attuale Kirill
sembra la reincarnazione anche nei tratti del volto, che pretendeva di essere
chiamato “signore e monarca” della Russia prima di essere cacciato dallo zar
Aleksej, nipote di Filaret. Prima di morire Nikon cercò di tornare a Mosca per
proclamarsi “papa universale”, trasferendo gli antichi patriarcati nelle
provincie vicine a Mosca, appoggiato in questo da alcuni patriarchi orientali
in esilio dall’impero ottomano.
Questi e altri sono i complessi e
grotteschi eventi che vengono celebrati nella Russia militante di oggi, in
cerca della rivincita sui polacchi e sull’Occidente, che da allora, secondo i
capi moscoviti, cercano in ogni modo di cancellare la Russia. Ad opporsi agli
invasori, ispirati dai gesuiti di Cracovia, furono le “armate popolari” del
mercante Kuzma Minin e del principe Dmitrij Požarskij, le cui figure sono
immortalate nel monumento di fronte all’ingresso del Cremlino, indicando con il
gesto delle braccia la via del ritorno agli invasori. Sono i profeti della
resistenza russa ad ogni tentativo di occupazione, da quella degli svedesi
settecenteschi a quella napoleonica, fino all’assalto delle armate hitleriane,
così intensamente rievocato in questi mesi.
Celebrando la torbida memoria
seicentesca, i russi trovano quindi le ragioni per proseguire nella grande
guerra difensiva, ora di fatto impantanata nei fanghi tardo-autunnali delle
zone annesse, resistendo con il sacrificio del popolo “mobilitato” ai tentativi
di riconquista dei corrotti ucraini, eredi dei polacchi e dei gesuiti di
allora. In realtà la scelta del 4 novembre fu piuttosto casuale, quando dopo la
fine dell’Urss venne soppressa la grande festa del 7 novembre che commemorava
la Rivoluzione d’Ottobre, in un sovrapporsi di calendari anch’esso assai
simbolico, nell’endemica contraddizione della storia russa.
La vicinanza delle due date permetteva di
mantenere l’abitudine del “ponte” festivo di inizio novembre, a cui anche i
russi post-sovietici non intendevano rinunciare. A novembre di solito calano i
primi geli e fioccano le prime nevi, e l’abitudine popolare del saluto
all’inverno incipiente significa anche una dinamica di morte e risurrezione:
l’inverno infatti copre e nasconde, chiude in casa e coglie per strada, spesso
senza lasciare scampo ai viaggiatori, o semplicemente ai girovaghi in preda ad
eccessi alcolici. La festa di novembre è un addio, mentre l’arrivo della
primavera di maggio è la nuova nascita, il saluto di chi ritorna dalla morte, e
mai come quest’anno la tempistica tradizionale coincide con i timori e gli
auspici della realtà, di fronte alla minaccia della catastrofe nucleare, o al
congelamento della guerra perenne.
Furono i dirigenti della Chiesa
ortodossa, l’allora patriarca Aleksij e il metropolita Kirill, a suggerire
negli anni ’90 la data “patriarcale”, quasi a lasciar intendere di essere
nuovamente loro ad arrogarsi il diritto di benedire e maledire ogni forma di
vita sociale e politica. In seguito la festa ha riassorbito sia le pretese
imperiali dello “zar del popolo”, come volevano essere definiti i monarchi
Romanov, sia quelle della “dittatura del proletariato”, in cui il popolo veniva
educato e “mobilitato” dal partito. Anche oggi il patriarca Kirill tuona contro
il degrado morale occidentale, a cui solo la vera Ortodossia russa è in grado
di resistere, e come allora veniva innalzata contro i polacchi l’icona
miracolosa della Madonna di Kazan, oggi si mostra al popolo l’icona della
Santissima Trinità, strappata al Museo della Galleria Tret’jakov di Mosca per
rievocare “l’unità divina” del trono, dell’altare e dell’esercito.
Eppure proprio la memoria è la via della
redenzione e della pace, come suggeriscono le celebrazioni cattoliche dei Santi
e dei Defunti proprio di questi giorni, e invece di selezionare eventi passati
di gloria imperiale, sarebbe stato meglio non oscurare un’altra data simbolica,
quella del 30 ottobre, quando ricorreva il Giorno della Memoria delle vittime
delle repressioni politiche, istituito nella Russia eltsiniana del 1991. Era la
memoria dei dissidenti sovietici, oggi cancellata d’autorità dal nuovo regime
dittatoriale, che oltre all’Ucraina, quest’anno ha sterminato tutte le voci
alternative, sopprimendo perfino l’associazione Memorial che ne era lo
strumento e la voce. Era stato il leader del dissenso e premio Nobel della Pace
Andrej Sakharov a ispirare quella memoria, quando il 30 ottobre 1974 aveva
organizzato una conferenza stampa nel suo appartamento moscovita, per sostenere
lo sciopero della fame di alcuni prigionieri politici rinchiusi nei lager della
Mordovia e della regione di Perm.
Da allora il 30 ottobre era diventato un
appuntamento di tutti gli attivisti umanitari, negli anni della persecuzione
fino a quelli odierni della cancellazione. Anche quest’anno la “Restituzione
dei nomi” si è svolta in quasi tutta la Russia, tranne che a Mosca, dove
perfino nella cattedrale cattolica dell’Immacolata Concezione l’arcivescovo
locale mons. Pezzi ha proibito la proclamazione dei nomi delle vittime
cattoliche della repressione sovietica, che pure sono affissi alle mura della
chiesa. Il 30 ottobre 1988 era anche stata fondata l’associazione Memorial, che
l’anno dopo nella stessa data riunì migliaia di persone in una catena umana
attorno alla sede del Kgb della Lubjanka, chiedendo di processare i “boia
čekisti”, i tanti oppressori della polizia politica dell’Urss.
La Restituzione dei Nomi fu inaugurata
nel 2007 presso la stele moscovita delle vittime delle Solovki, il primo lager
di Lenin dove sorgeva l’antico monastero dell’estremo nord. Allora i nomi
rievocati erano 420, poi cresciuti di anno in anno con la pubblicazione dei
documenti di Memorial, fino alla chiusura putiniana degli archivi e
l’oscuramento della memoria. L’ultima sua espressione pubblica di un certo
rilievo fu l’inaugurazione del “Muro dell’Afflizione” (Stena Skorbi) sul
prospekt Sakharova di Mosca, il 30 ottobre 2017, a 80 anni dal terrore
staliniano del 1937. Lo stesso Putin intervenne alla manifestazione, affermando
che la repressione era una tragedia e un crimine, che non si può giustificare.
Poi, evidentemente, ha perso la memoria.
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