Vetrate di Yvetot, particolare: |
Dall’alto in basso, Santa
Hildemarque, prima badessa del monastero femminile di Fécamp, fondato nel VII
secolo. Sant’Hildevert, vescovo di Meaux all’VIII secolo. Le sue reliquie
furono trasferite a Gournay en Bray al XII secolo. San Hugues (Ugo), monaco di
Jumièges, fu posto dallo zio Carlo Martello sulla sede episcopale di Rouen
(722). Promosse lo sviluppo delle abazie di Jumièges e Saint Wandrille.
CAPITOLO QUARTO: ALCUNE CARATTERISTICHE DELLA SANTITÀ
NEL MONDO ATTUALE
110.
All’interno del grande quadro della santità che ci propongono le Beatitudini
e Matteo 25,31-46, vorrei raccogliere alcune caratteristiche o
espressioni spirituali che, a mio giudizio, sono indispensabili per comprendere
lo stile di vita a cui il Signore ci chiama. Non mi fermerò a spiegare i mezzi
di santificazione che già conosciamo: i diversi metodi di preghiera, i preziosi
sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, l’offerta dei sacrifici, le
varie forme di devozione, la direzione spirituale, e tanti altri. Mi riferirò
solo ad alcuni aspetti della chiamata alla santità che spero risuonino in
maniera speciale.
111. Queste
caratteristiche che voglio evidenziare non sono tutte quelle che possono
costituire un modello di santità, ma sono cinque grandi manifestazioni
dell’amore per Dio e per il prossimo che considero di particolare importanza a
motivo di alcuni rischi e limiti della cultura di oggi. In essa si manifestano:
l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la
tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante
forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato
religioso attuale.
Sopportazione,
pazienza e mitezza
112. La
prima di queste grandi caratteristiche è rimanere centrati, saldi in Dio che
ama e sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare,
sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, e anche le aggressioni
degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti: «Se Dio è con noi, chi sarà
contro di noi?» (Rm 8,31). Questo è fonte di pace che si esprime
negli atteggiamenti di un santo. Sulla base di tale solidità interiore, la
testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è
fatta di pazienza e costanza nel bene. E’ la fedeltà dell’amore, perché chi si
appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli (pistós),
non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare dall’ansietà e
rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura soddisfazioni
immediate.
113. San
Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere «a nessuno male per male» (Rm 12,17),
a non voler farsi giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere
dal male, ma a vincere il male con il bene (cfr v. 21). Questo atteggiamento
non è segno di debolezza ma della vera forza, perché Dio stesso «è lento
all’ira, ma grande nella potenza» (Na 1,3). La Parola di Dio ci
ammonisce: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze
con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31).
115. Anche i
cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i
diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici
si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e
sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si
verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non
sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie
insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo
che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra
completamente all’ottavo: «Non dire falsa testimonianza», e si distrugga
l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la
lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua
fiamma dalla Geenna» (Gc 3,6).
116. La
fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci
trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza
la vanità e rende possibile la mitezza del cuore. Il santo non spreca le sue
energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai
difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che distrugge e maltratta,
perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li
considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3).
117. Non ci
fa bene guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati,
considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni.
Questa è una sottile forma di violenza.[95] San
Giovanni della Croce proponeva un’altra cosa: «Sii più inclinato ad essere
ammaestrato da tutti che a volere ammaestrare chi è inferiore a tutti».[96] E
aggiungeva un consiglio per tenere lontano il demonio: «Rallegrandoti del bene degli
altri come se fosse tuo e cercando sinceramente che questi siano preferiti a te
in tutte le cose. In tal modo vincerai il male con il bene, caccerai lontano da
te il demonio e ne ricaverai gioia di spirito. Cerca di fare ciò specialmente
con coloro i quali meno ti sono simpatici. Sappi che se non ti eserciterai in
questo campo, non giungerai alla vera carità né farai profitto in essa».[97]
118.
L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di
esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire
alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità
che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio:
questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare a Gesù, è parte
ineludibile dell’imitazione di Cristo: «Cristo patì per voi, lasciandovi un
esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2,21). Egli a sua volta
manifesta l’umiltà del Padre, che si umilia per camminare con il suo popolo,
che sopporta le sue infedeltà e mormorazioni (cfr Es34,6-9; Sap 11,23-12,2; Lc 6,36).
Per questa ragione gli Apostoli, dopo l’umiliazione, erano «lieti di essere
stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (At 5,41).
119. Non mi
riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma alle umiliazioni
quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano
di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di
gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono
addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore: «Se, facendo
il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a
Dio» (1 Pt 2,20). Non è camminare a capo chino, parlare poco o
sfuggire dalla società. A volte, proprio perché è libero dall’egocentrismo,
qualcuno può avere il coraggio di discutere amabilmente, di reclamare giustizia
o di difendere i deboli davanti ai potenti, benché questo gli procuri
conseguenze negative per la sua immagine.
120. Non
dico che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe
masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione
con Lui. Questo non è comprensibile sul piano naturale e il mondo ridicolizza
una simile proposta. E’ una grazia che abbiamo bisogno di supplicare: “Signore,
quando vengono le umiliazioni, aiutami a sentire che mi trovo dietro di te,
sulla tua via”.
121. Tale
atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da
quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa
pacificazione, operata dalla grazia, ci permette di mantenere una sicurezza
interiore e resistere, perseverare nel bene «anche se vado per una valle
oscura» (Sal 23,4) o anche «se contro di me si accampa un esercito»
(Sal 27,3). Saldi nel Signore, la Roccia, possiamo cantare: «In
pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi
fai riposare» (Sal 4,9). In definitiva, Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14)
ed è venuto a «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79).
Egli comunicò a santa Faustina Kowalska che «l’umanità non troverà pace, finché
non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia».[98]Non
cadiamo dunque nella tentazione di cercare la sicurezza interiore nei successi,
nei piaceri vuoti, nel possedere, nel dominio sugli altri o nell’immagine
sociale: «Vi do la mia pace», ma «non come la dà il mondo» (Gv 14,27).
Gioia e
senso dell’umorismo
122. Quanto
detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un
basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso
dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito
positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17),
perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode
sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia».[99] Abbiamo
ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove,
con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il
Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo
realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo
ripeto: siate lieti» (Fil 4,4).
123. I
profeti annunciavano il tempo di Gesù, che noi stiamo vivendo, come una
rivelazione della gioia: «Canta ed esulta!» (Is 12,6); «Sali su un
alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu
che annunci liete notizie a Gerusalemme» (Is 40,9); «Gridate di
gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei
suoi poveri» (Is 49,13); «Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e
vittorioso» (Zc 9,9). E non dimentichiamo l’esortazione di Neemia:
«Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza» (8,10).
124. Maria,
che ha saputo scoprire la novità portata da Gesù, cantava: «Il mio spirito
esulta» (Lc 1,47) e Gesù stesso «esultò di gioia nello Spirito
Santo» (Lc 10,21). Quando Lui passava, «la folla intera esultava» (Lc 13,17).
Dopo la sua risurrezione, dove giungevano i discepoli si riscontrava «una
grande gioia» (At 8,8). A noi Gesù dà una sicurezza: «Voi sarete
nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. […] Vi vedrò di
nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra
gioia» (Gv 16,20.22). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia
sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
125. Ci sono
momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia
soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno
spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente
amato, al di là di tutto».[100] E’
una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una
soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani.
126.
Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così
evidente, ad esempio, in san Tommaso Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san
Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: «Caccia la malinconia dal
tuo cuore» (Qo11,10). E’ così tanto quello che riceviamo dal Signore
«perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), che a volte la tristezza è
legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da
diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio.[101]
127. Il suo
amore paterno ci invita: «Figlio, […] trattati bene […]. Non privarti di un
giorno felice» (Sir 14,11.14). Ci vuole positivi, grati e non
troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro […]. Dio ha creato gli esseri
umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Qo 7,14.29).
In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san
Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11).
E’ quello che viveva san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di
gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la
brezza che accarezzava il suo volto.
128. Non sto
parlando della gioia consumista e individualista così presente in alcune
esperienze culturali di oggi. Il consumismo infatti non fa che appesantire il
cuore; può offrire piaceri occasionali e passeggeri, ma non gioia. Mi riferisco
piuttosto a quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si
partecipa, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35)
e «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). L’amore fraterno
moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del
bene degli altri: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15).
«Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti» (2 Cor13,9).
Invece, se «ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo
a vivere con poca gioia».[102]
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