Chiesa di Yvetot, i primi pannelli partendo da sinistra. La prima figura in basso è il parroco di allora. |
CAPITOLO TERZO: ALLA LUCE DEL MAESTRO
63. Ci
possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e
distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante
che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la
verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha
fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23).
Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si
pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la
risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù
nel discorso delle Beatitudini.[66] In
esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella
quotidianità della nostra vita.
64. La
parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la
persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la
vera beatitudine.
Controcorrente
65. Nonostante le parole di Gesù possano sembrarci poetiche, tuttavia vanno molto controcorrente rispetto a quanto è abituale, a quanto si fa nella società; e, anche se questo messaggio di Gesù ci attrae, in realtà il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio.
66. Torniamo
ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che merita il Maestro.
Permettiamogli di colpirci con le sue parole, di provocarci, di richiamarci a
un reale cambiamento di vita. Altrimenti la santità sarà solo parole.
Ricordiamo ora le singole Beatitudini nella versione del vangelo di Matteo (cfr
5,3-12).[67]
«Beati i
poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli»
67. Il
Vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove
riponiamo la sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro
con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso
della sua vita sulla terra si sgretola. Gesù stesso ce l’ha detto nella
parabola del ricco stolto, parlando di quell’uomo sicuro di sé che, come uno
sciocco, non pensava che poteva morire quello stesso giorno (cfr Lc 12,16-21).
68. Le
ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è
talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per
amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si
priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito,
che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante
novità.
70. Luca non
parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20),
e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci
chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli
Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è
fatto povero» (2 Cor 8,9).
Essere
poveri nel cuore, questo è santità.
«Beati i
miti, perché avranno in eredità la terra».
71. È
un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di
inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove
continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini, e
perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno
dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di
innalzarsi al di sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile,
Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi
discepoli e che contempliamo nel suo ingresso in Gerusalemme: «Ecco, a te viene
il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro» (Mt 21,5; cfrZc 9,9).
72. Egli
disse: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per
la vostra vita» (Mt 11,29). Se viviamo agitati, arroganti di fronte
agli altri, finiamo stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i
loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar
loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili. Per santa
Teresa di Lisieux «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui,
non stupirsi assolutamente delle loro debolezze».[69]
73. Paolo
menziona la mitezza come un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23).
Propone che, se qualche volta ci preoccupano le cattive azioni del fratello, ci
avviciniamo per correggerle, ma «con spirito di dolcezza» (Gal 6,1),
e ricorda: «e tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (ibid.).
Anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo
con mitezza (cfr 1 Pt 3,16), e persino gli avversari devono
essere trattati con mitezza (cfr 2 Tm 2,25). Nella Chiesa
tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola
divina.
74. La
mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la
propria fiducia solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la
medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti.
Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno
sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri
lo pensino. E’ meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più
grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero, vedranno
compiute nella loro vita le promesse di Dio. Perché i miti, al di là di ciò che
dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel Signore
possederanno la terra e godranno di grande pace (cfr Sal 37,9.11).
Nello stesso tempo, il Signore confida in loro: «Su chi volgerò lo sguardo?
Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
Reagire con
umile mitezza, questo è santità.
«Beati
quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati»
75. Il mondo
ci propone il contrario: il divertimento, il godimento, la distrazione, lo
svago, e ci dice che questo è ciò che rende buona la vita. Il mondano ignora,
guarda dall’altra parte quando ci sono problemi di malattia o di dolore in
famiglia o intorno a lui. Il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le
situazioni dolorose, coprirle, nasconderle. Si spendono molte energie per
scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia
possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce.
76. La
persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e
piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di
essere veramente felice.[70] Quella
persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo.
Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di
fuggire dalle situazioni dolorose. In tal modo scopre che la vita ha senso nel
soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare
sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne,
non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a
sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere
quell’esortazione di san Paolo: «Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15).
Saper
piangere con gli altri, questo è santità.
«Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati»
77. «Fame e
sete» sono esperienze molto intense, perché rispondono a bisogni primari e sono
legate all’istinto di sopravvivenza. Ci sono persone che con tale intensità
aspirano alla giustizia e la cercano con un desiderio molto forte. Gesù dice
che costoro saranno saziati, giacché presto o tardi la giustizia arriva, e noi
possiamo collaborare perché sia possibile, anche se non sempre vediamo i
risultati di questo impegno.
78. Ma la
giustizia che propone Gesù non è come quella che cerca il mondo, molte volte
macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà
ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far
parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è
commercio. E quanta gente soffre per le ingiustizie, quanti restano ad
osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta
della vita. Alcuni rinunciano a lottare per la vera giustizia e scelgono di
salire sul carro del vincitore. Questo non ha nulla a che vedere con la fame e
la sete di giustizia che Gesù elogia.
79. Tale
giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti
nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri
e i deboli. Certo la parola “giustizia” può essere sinonimo di fedeltà alla
volontà di Dio con tutta la nostra vita, ma se le diamo un senso molto generale
dimentichiamo che si manifesta specialmente nella giustizia con gli indifesi:
«Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova» (Is 1,17).
Cercare la
giustizia con fame e sete, questo è santità.
«Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia».
80. La
misericordia ha due aspetti: è dare, aiutare, servire gli altri e anche perdonare,
comprendere. Matteo riassume questo in una regola d’oro: «Tutto quanto vorrete
che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (7,12). Il Catechismo
ci ricorda che questa legge si deve applicare «in ogni caso»,[71] in
modo speciale quando qualcuno «talvolta si trova ad affrontare situazioni
difficili che rendono incerto il giudizio morale».[72]
81. Dare e
perdonare è tentare di riprodurre nella nostra vita un piccolo riflesso della
perfezione di Dio, che dona e perdona in modo sovrabbondante. Per questo motivo
nel vangelo di Luca non troviamo «siate perfetti» (Mt 5,48), ma
«siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e
non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e
sarete perdonati; date e vi sarà dato» (6,36-38). E dopo Luca aggiunge qualcosa
che non dovremmo trascurare: «Con la misura con la quale misurate, sarà
misurato a voi in cambio» (6,38). La misura che usiamo per comprendere e
perdonare verrà applicata a noi per perdonarci. La misura che applichiamo per
dare, sarà applicata a noi nel cielo per ricompensarci. Non ci conviene
dimenticarlo.
82. Gesù non
dice “Beati quelli che programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che
perdonano e lo fanno «settanta volte sette» (Mt 18,22). Occorre
pensare che tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati
guardati con compassione divina. Se ci accostiamo sinceramente al Signore e
affiniamo l’udito, probabilmente sentiremo qualche volta questo rimprovero:
«Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà
di te?» (Mt 18,33).
Guardare e
agire con misericordia, questo è santità.
«Beati i
puri di cuore, perché vedranno Dio».
83. Questa
beatitudine si riferisce a chi ha un cuore semplice, puro, senza sporcizia,
perché un cuore che sa amare non lascia entrare nella propria vita alcuna cosa
che minacci quell’amore, che lo indebolisca o che lo ponga in pericolo. Nella
Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e
desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: «L’uomo vede l’apparenza, ma il
Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Egli cerca di parlarci nel
cuore (cfr Os 2,16) e lì desidera scrivere la sua Legge
(cfr Ger 31,33). In definitiva, vuole darci un cuore nuovo
(cfr Ez 36,26).
84. «Più di
ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore» (Pr 4,23). Nulla
di macchiato dalla falsità ha valore reale per il Signore. Egli «fugge ogni
inganno, si tiene lontano dai discorsi insensati» (Sap 1,5). Il
Padre, che «vede nel segreto» (Mt 6,6), riconosce ciò che non è
pulito, vale a dire ciò che non è sincero, ma solo scorza e apparenza, come
pure il Figlio sa «quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25).
85. È vero
che non c’è amore senza opere d’amore, ma questa beatitudine ci ricorda che il
Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorghi dal cuore, poiché «se
anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne
vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,3).
Nel vangelo di Matteo vediamo pure che quanto viene dal cuore è ciò che rende
impuro l’uomo (cfr 15,18), perché da lì procedono gli omicidi, i furti, le
false testimonianze, e così via (cfr 15,19). Nelle intenzioni del cuore hanno
origine i desideri e le decisioni più profondi che realmente ci muovono.
86. Quando
il cuore ama Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40), quando
questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e
può vedere Dio. San Paolo, nel suo inno alla carità, ricorda che «adesso noi
vediamo come in uno specchio, in modo confuso» (1 Cor 13,12), ma
nella misura in cui regna veramente l’amore, diventeremo capaci di vedere
«faccia a faccia» (ibid.). Gesù promette che quelli che hanno un cuore
puro «vedranno Dio».
Mantenere il
cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità.
«Beati
gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
87. Questa
beatitudine ci fa pensare alle numerose situazioni di guerra che si ripetono.
Per noi è molto comune essere causa di conflitti o almeno di incomprensioni.
Per esempio, quando sento qualcosa su qualcuno e vado da un altro e glielo
dico; e magari faccio una seconda versione un po’ più ampia e la diffondo. E se
riesco a fare più danno, sembra che mi procuri più soddisfazione. Il mondo
delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non
costruisce la pace. Questa gente è piuttosto nemica della pace e in nessun modo
beata.[73]
88. I
pacifici sono fonte di pace, costruiscono pace e amicizia sociale. A coloro che
si impegnano a seminare pace dovunque, Gesù fa una meravigliosa promessa:
«Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Egli chiedeva ai
discepoli che quando fossero giunti in una casa dicessero: «Pace a questa
casa!» (Lc 10,5). La Parola di Dio sollecita ogni credente a cercare
la pace insieme agli altri (cfr 2 Tm2,22), perché «per coloro che
fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18).
E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba
fare, «cerchiamo ciò che porta alla pace» (Rm 14,19), perché
l’unità è superiore al conflitto.[74]
89. Non è
facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra
anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli
che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla
vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente
e del cuore, poiché non si tratta di «un consenso a tavolino o [di] un’effimera
pace per una minoranza felice»[75],
né di un progetto «di pochi indirizzato a pochi».[76] Nemmeno
cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di «accettare di sopportare il
conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo».[77] Si
tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che
richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza.
Seminare
pace intorno a noi, questo è santità.
«Beati i
perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
90. Gesù
stesso sottolinea che questo cammino va controcorrente fino al punto da farci
diventare persone che con la propria vita mettono in discussione la società,
persone che danno fastidio. Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata
perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto
i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una
oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché «chi vuol salvare la
propria vita, la perderà» (Mt 16,25).
91. Non si
può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole,
perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano
contro di noi. San Giovanni Paolo II diceva che «è alienata la società che,
nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende
più difficile la realizzazione [del] dono [di sé] e il costituirsi [della]
solidarietà interumana»[78].
In una tale società alienata, intrappolata in una trama politica, mediatica,
economica, culturale e persino religiosa che ostacola l’autentico sviluppo
umano e sociale, vivere le Beatitudini diventa difficile e può essere
addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata.
92. La
croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il
comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e
di santificazione. Ricordiamo che, quando il Nuovo Testamento parla delle
sofferenze che bisogna sopportare per il Vangelo, si riferisce precisamente
alle persecuzioni (cfr At 5,41; Fil 1,29; Col 1,24; 2
Tm 1,12; 1 Pt 2,20; 4,14-16; Ap 2,10).
93. Parliamo
però delle persecuzioni inevitabili, non di quelle che ci potremmo procurare
noi stessi con un modo sbagliato di trattare gli altri. Un santo non è una
persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità,
la sua negatività e i suoi risentimenti. Non erano così gli Apostoli di Cristo.
Il libro degli Atti racconta insistentemente che essi godevano della simpatia
«di tutto il popolo» (2,47; cfr 4,21.33; 5,13), mentre alcune autorità li
ricercavano e li perseguitavano (cfr 4,1-3; 5,17-18).
94. Le
persecuzioni non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo,
sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più
sottile, attraverso calunnie e falsità. Gesù dice che ci sarà beatitudine
quando «mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11).
Altre volte si tratta di scherni che tentano di sfigurare la nostra fede e di
farci passare per persone ridicole.
Accettare
ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è
santità.
Nessun commento:
Posta un commento