Chiesa di Yvetot, Francia - Vetrate di Max Ingrand, particolare: Saint Wandrille et saint Maurille, tra i primi evangelizzatori della Normandia. |
CAPITOLO SECONDO: DUE SOTTILI NEMICI DELLA SANTITÀ
35. In
questo quadro, desidero richiamare l’attenzione su due falsificazioni della
santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il
pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che
continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti
cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste
proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico
travestito da verità cattolica.[33] Vediamo
queste due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo «ad un
elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si
analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla
grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù
Cristo né gli altri interessano veramente».[34]
Lo
gnosticismo attuale
36. Lo
gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa
unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze
che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in
definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi
sentimenti».[35]
Una mente
senza Dio e senza carne
38. In
definitiva, si tratta di una vanitosa superficialità: molto movimento alla
superficie della mente, però non si muove né si commuove la profondità del
pensiero. Tuttavia, riesce a soggiogare alcuni con un fascino ingannevole,
perché l’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può
assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto.
39. Facciamo
però attenzione. Non mi riferisco ai razionalisti nemici della fede cristiana.
Questo può accadere dentro la Chiesa, tanto tra i laici delle parrocchie quanto
tra coloro che insegnano filosofia o teologia in centri di formazione. Perché è
anche tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere
perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo. Assolutizzano le
proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti.
Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento
teologico e morale del Vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre
l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto.[37]
Una dottrina
senza mistero
40. Lo
gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente
la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione
della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa
ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca. A volte diventa particolarmente
ingannevole quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo
gnosticismo «per sua propria natura vuole addomesticare il mistero»,[38] sia
il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri.
41. Quando
qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada
non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a
proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e
mentali. Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a
determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non
dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole
tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio.
42. Neppure
si può pretendere di definire dove Dio non si trova, perché Egli è misteriosamente
presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli
desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora
l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo
distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita. Se ci
lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri ragionamenti, possiamo e
dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana. Questo fa parte del mistero che
le mentalità gnostiche finiscono per rifiutare, perché non lo possono
controllare.
I limiti
della ragione
43. Noi
arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal
Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non
possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare
un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa
convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della
dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, «aiutano ad
esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola». Certo, «a quanti
sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può
sembrare un’imperfetta dispersione».[39] Per
l’appunto, alcune correnti gnostiche hanno disprezzato la semplicità così
concreta del Vangelo e hanno tentato di sostituire il Dio trinitario e
incarnato con una Unità superiore in cui scompariva la ricca molteplicità della
nostra storia.
44. In
realtà, la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa,
«non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi,
interrogativi», e «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie,
i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore
ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il
principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi
interrogativi ci interrogano».[40]
45.
Frequentemente si verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché
sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi,
perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti
nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla
tentazione di sviluppare «un certo sentimento di superiorità rispetto agli
altri fedeli».[41] In
realtà, però, quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una
motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché «si impara per
vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile».[42]
46. Quando
san Francesco d’Assisi vedeva che alcuni dei suoi discepoli insegnavano la
dottrina, volle evitare la tentazione del gnosticismo. Quindi scrisse così a
Sant’Antonio di Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati,
purché, in tale occupazione, tu non estingua lo spirito di orazione e di
devozione».[43] Egli
riconosceva la tentazione di trasformare l’esperienza cristiana in un insieme
di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del
Vangelo. San Bonaventura, da parte sua, avvertiva che la vera saggezza
cristiana non deve separarsi dalla misericordia verso il prossimo: «La più
grande saggezza che possa esistere consiste nel dispensare fruttuosamente ciò
che si possiede, e che si è ricevuto proprio perché fosse dispensato. [...] Per
questo, come la misericordia è amica della saggezza, così l’avarizia le è
nemica».[44] «Vi
sono attività che, unendosi alla contemplazione, non la impediscono, bensì la
favoriscono, come le opere di misericordia e di pietà».[45]
Il
Pelagianesimo attuale
47. Lo
gnosticismo ha dato luogo ad un’altra vecchia eresia, anch’essa oggi presente.
Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a
renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo
degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici
semplicemente si trasformò, ma non venne superato.
48. Infatti,
il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono
ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i
pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto
del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto «dipende
[non] dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm 9,16)
e che Egli «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19).
Una volontà
senza umiltà
49. Quelli
che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino
della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento
unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché
osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo
stile cattolico».[46] Quando
alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è
possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la
volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a
cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che «non tutti possono
tutto»[47] e
che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una
volta per tutte dalla grazia.[48] In
qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che
puoi e «a chiedere quello che non puoi»;[49] o
a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che
vuoi».[50]
50. In
ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei
nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché
non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un
cammino sincero e reale di crescita.[51] La
grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo
superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso,
dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello
che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci
poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e
limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci
chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La
grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo
progressivo.[52] Perciò,
se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare
a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo.
51. Quando
Dio si rivolge ad Abramo gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti
a me e sii integro» (Gen 17,1). Per poter essere perfetti, come a
Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella
sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo
amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa
presenza che ci può fare solo bene. E’ il Padre che ci ha dato la vita e ci ama
tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza
senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (cfr Sal 139,7).
E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza,
potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la
retta via (cfr Sal139,23-24). Così conosceremo la volontà amabile e
perfetta del Signore (cfr Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci
plasmi come un vasaio (cfr Is 29,16). Abbiamo detto tante
volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli
ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio:
«Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del
Signore tutti i giorni della mia vita» (Sal 27,4). «E’ meglio un
giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa» (Sal 84,11).
In Lui veniamo santificati.
Un
insegnamento della Chiesa spesso dimenticato
52. La
Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre
opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa.
I Padri della Chiesa, anche prima di sant’Agostino, hanno espresso con
chiarezza questa convinzione primaria. San Giovanni Crisostomo affermava che
Dio versa in noi la fonte stessa di tutti i doni «prima che noi siamo entrati
nel combattimento».[53] San
Basilio Magno rimarcava che il fedele si gloria solo in Dio, perché «riconosce
di essere privo della vera giustizia e giustificato unicamente mediante la fede
in Cristo».[54]
53. Il
secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere
umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto
ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia:
«Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e
operazione su di noi dello Spirito Santo».[55] Successivamente
il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l’importanza della nostra
cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell’insegnamento
dogmatico: «Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di
quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la
grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le
opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)».[56]
54. Anche
il Catechismo della
Chiesa Cattolica ci
ricorda che il dono della grazia «supera le capacità dell’intelligenza e le
forze della volontà dell’uomo»,[57] e
che «nei confronti di Dio in senso strettamente giuridico non c’è merito da
parte dell’uomo. Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata».[58] La
sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le
nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci
invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal
momento che «quando uno è in grazia, la grazia che ha già ricevuto non può
essere meritata».[59] I
santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita,
comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare
le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi».[60]
55. Questa è
una delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto
chiaramente espressa nella Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione.
Così come il supremo comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe contrassegnare
il nostro stile di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e ci chiama non
solo ad accettarla con la mente, ma a trasformarla in una gioia contagiosa. Non
potremo però celebrare con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia con il
Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le nostre
capacità naturali sono un dono. Abbiamo bisogno di «riconoscere gioiosamente
che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà
come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di
possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà».[61]
56. Solo a
partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo
cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più.[62] La
prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di
offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male
e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in
noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i
vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm12,1).
Del resto, la Chiesa ha sempre insegnato che solo la carità rende possibile la
crescita nella vita di grazia, perché «se non avessi la carità, non sarei
nulla» (1 Cor 13,2).
I nuovi
pelagiani
57. Ci sono
ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della
giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà
umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento
egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti
atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il
fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura
della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria
legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di
auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani
spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo
Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la
bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense
moltitudini assetate di Cristo.[63]
58. Molte
volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un
pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi
cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme
proprie, di costumi o stili. In questo modo, spesso si riduce e si reprime il
Vangelo, togliendogli la sua affascinante semplicità e il suo sapore. E’ forse
una forma sottile di pelagianesimo, perché sembra sottomettere la vita della
grazia a certe strutture umane. Questo riguarda gruppi, movimenti e comunità,
ed è ciò che spiega perché tante volte iniziano con un’intensa vita nello
Spirito, ma poi finiscono fossilizzati... o corrotti.
59. Senza
renderci conto, per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano
incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, complichiamo il Vangelo e
diventiamo schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia
agisca. San Tommaso d’Aquino ci ricordava che i precetti aggiunti al Vangelo da
parte della Chiesa devono esigersi con moderazione «per non rendere gravosa la
vita ai fedeli», perché così si muterebbe la nostra religione in una schiavitù.[64]
Il riassunto
della Legge
60. Al fine
di evitare questo, è bene ricordare spesso che esiste una gerarchia delle
virtù, che ci invita a cercare l’essenziale. Il primato appartiene alle virtù
teologali, che hanno Dio come oggetto e motivo. E al centro c’è la carità. San
Paolo dice che ciò che conta veramente è «la fede che si rende operosa per
mezzo della carità» (Gal 5,6). Siamo chiamati a curare attentamente
la carità: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge [...] pienezza della Legge
infatti è la carità» (Rm 13,8.10). Perché «tutta la Legge infatti
trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come
te stesso» (Gal 5,14).
61. Detto in
altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre
una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello
del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna
due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché
in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso,
è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità
vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera
d’arte. Poiché «che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze
non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze
non svaniscono!».[65]
62. Che il
Signore liberi la Chiesa dalle nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo
che la complicano e la fermano nel suo cammino verso la santità! Queste
deviazioni si esprimono in forme diverse, secondo il proprio temperamento e le
proprie caratteristiche. Per questo esorto ciascuno a domandarsi e a discernere
davanti a Dio in che modo si possano rendere manifeste nella sua vita.
Nessun commento:
Posta un commento