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giovedì 12 aprile 2018

GAUDETE ET EXSULTATE Capitolo II, nn. 35 - 62


Chiesa di Yvetot, Francia - Vetrate di Max Ingrand, particolare:
Saint Wandrille et saint Maurille, tra i primi evangelizzatori della Normandia.
CAPITOLO SECONDO: DUE SOTTILI NEMICI DELLA SANTITÀ
35. In questo quadro, desidero richiamare l’attenzione su due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica.[33] Vediamo queste due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo «ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente».[34]
Lo gnosticismo attuale
36. Lo gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti».[35]
Una mente senza Dio e senza carne
37. Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Gli “gnostici” fanno confusione su questo punto e giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine. Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono «un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo».[36]
38. In definitiva, si tratta di una vanitosa superficialità: molto movimento alla superficie della mente, però non si muove né si commuove la profondità del pensiero. Tuttavia, riesce a soggiogare alcuni con un fascino ingannevole, perché l’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto.
39. Facciamo però attenzione. Non mi riferisco ai razionalisti nemici della fede cristiana. Questo può accadere dentro la Chiesa, tanto tra i laici delle parrocchie quanto tra coloro che insegnano filosofia o teologia in centri di formazione. Perché è anche tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo. Assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti. Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento teologico e morale del Vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto.[37]
Una dottrina senza mistero
40. Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca. A volte diventa particolarmente ingannevole quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo gnosticismo «per sua propria natura vuole addomesticare il mistero»,[38] sia il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri.
41. Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali. Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio.
42. Neppure si può pretendere di definire dove Dio non si trova, perché Egli è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri ragionamenti, possiamo e dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana. Questo fa parte del mistero che le mentalità gnostiche finiscono per rifiutare, perché non lo possono controllare.
I limiti della ragione
43. Noi arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, «aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola». Certo, «a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione».[39] Per l’appunto, alcune correnti gnostiche hanno disprezzato la semplicità così concreta del Vangelo e hanno tentato di sostituire il Dio trinitario e incarnato con una Unità superiore in cui scompariva la ricca molteplicità della nostra storia.
44. In realtà, la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, «non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi», e «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano».[40]
45. Frequentemente si verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla tentazione di sviluppare «un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli».[41] In realtà, però, quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché «si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile».[42]
46. Quando san Francesco d’Assisi vedeva che alcuni dei suoi discepoli insegnavano la dottrina, volle evitare la tentazione del gnosticismo. Quindi scrisse così a Sant’Antonio di Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché, in tale occupazione, tu non estingua lo spirito di orazione e di devozione».[43] Egli riconosceva la tentazione di trasformare l’esperienza cristiana in un insieme di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del Vangelo. San Bonaventura, da parte sua, avvertiva che la vera saggezza cristiana non deve separarsi dalla misericordia verso il prossimo: «La più grande saggezza che possa esistere consiste nel dispensare fruttuosamente ciò che si possiede, e che si è ricevuto proprio perché fosse dispensato. [...] Per questo, come la misericordia è amica della saggezza, così l’avarizia le è nemica».[44] «Vi sono attività che, unendosi alla contemplazione, non la impediscono, bensì la favoriscono, come le opere di misericordia e di pietà».[45]
Il Pelagianesimo attuale
47. Lo gnosticismo ha dato luogo ad un’altra vecchia eresia, anch’essa oggi presente. Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici semplicemente si trasformò, ma non venne superato.
48. Infatti, il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto «dipende [non] dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm 9,16) e che Egli «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19).
Una volontà senza umiltà
49. Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico».[46] Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che «non tutti possono tutto»[47] e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia.[48] In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e «a chiedere quello che non puoi»;[49] o a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi».[50]
50. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita.[51] La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo.[52] Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo.
51. Quando Dio si rivolge ad Abramo gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa presenza che ci può fare solo bene. E’ il Padre che ci ha dato la vita e ci ama tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (cfr Sal 139,7). E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza, potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la retta via (cfr Sal139,23-24). Così conosceremo la volontà amabile e perfetta del Signore (cfr Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci plasmi come un vasaio (cfr Is 29,16). Abbiamo detto tante volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita» (Sal 27,4). «E’ meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa» (Sal 84,11). In Lui veniamo santificati.
Un insegnamento della Chiesa spesso dimenticato
52. La Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa. I Padri della Chiesa, anche prima di sant’Agostino, hanno espresso con chiarezza questa convinzione primaria. San Giovanni Crisostomo affermava che Dio versa in noi la fonte stessa di tutti i doni «prima che noi siamo entrati nel combattimento».[53] San Basilio Magno rimarcava che il fedele si gloria solo in Dio, perché «riconosce di essere privo della vera giustizia e giustificato unicamente mediante la fede in Cristo».[54]
53. Il secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia: «Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e operazione su di noi dello Spirito Santo».[55] Successivamente il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l’importanza della nostra cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell’insegnamento dogmatico: «Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)».[56]
54. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che il dono della grazia «supera le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo»,[57] e che «nei confronti di Dio in senso strettamente giuridico non c’è merito da parte dell’uomo. Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata».[58] La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal momento che «quando uno è in grazia, la grazia che ha già ricevuto non può essere meritata».[59] I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi».[60]
55. Questa è una delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto chiaramente espressa nella Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione. Così come il supremo comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe contrassegnare il nostro stile di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e ci chiama non solo ad accettarla con la mente, ma a trasformarla in una gioia contagiosa. Non potremo però celebrare con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia con il Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le nostre capacità naturali sono un dono. Abbiamo bisogno di «riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà».[61]
56. Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più.[62] La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm12,1). Del resto, la Chiesa ha sempre insegnato che solo la carità rende possibile la crescita nella vita di grazia, perché «se non avessi la carità, non sarei nulla» (1 Cor 13,2).
I nuovi pelagiani
57. Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo.[63]
58. Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua affascinante semplicità e il suo sapore. E’ forse una forma sottile di pelagianesimo, perché sembra sottomettere la vita della grazia a certe strutture umane. Questo riguarda gruppi, movimenti e comunità, ed è ciò che spiega perché tante volte iniziano con un’intensa vita nello Spirito, ma poi finiscono fossilizzati... o corrotti.
59. Senza renderci conto, per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca. San Tommaso d’Aquino ci ricordava che i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione «per non rendere gravosa la vita ai fedeli», perché così si muterebbe la nostra religione in una schiavitù.[64]
Il riassunto della Legge
60. Al fine di evitare questo, è bene ricordare spesso che esiste una gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare l’essenziale. Il primato appartiene alle virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e motivo. E al centro c’è la carità. San Paolo dice che ciò che conta veramente è «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Siamo chiamati a curare attentamente la carità: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge [...] pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8.10). Perché «tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
61. Detto in altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte. Poiché «che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze non svaniscono!».[65]
62. Che il Signore liberi la Chiesa dalle nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo che la complicano e la fermano nel suo cammino verso la santità! Queste deviazioni si esprimono in forme diverse, secondo il proprio temperamento e le proprie caratteristiche. Per questo esorto ciascuno a domandarsi e a discernere davanti a Dio in che modo si possano rendere manifeste nella sua vita.

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