E' da tempo che sentivo l'esigenza di scrivere sugli abusi sessuali, di potere o di coscienza compiuti su minori o persone deboli da parte di membri della Chiesa nella specie chierici e persone consacrate e su tutto ciò che include. E' un tema molto delicato e anche complesso oltre che estremamente doloroso. E siccome quasi nessuno in parrocchia mi ha chiesto di questo anche se ne ho parlato più volte in omelia e discorsi privati, ho temporeggiato. Ero comunque convito che non parlarmene non significava che queste notizie non ferivano coloro che le sentivano.
Ecco che però, dopo la lettera al popolo della Chiesa del Cile, Papa Francesco, questa volta, si rivolge a tutto il popolo di Dio. Scopriamo insieme questa lettera (preghiamo anche per il Forum Internazionale delle Famiglie che inizia oggi in Irlanda).
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL POPOLO DI DIO
AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre,
tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di
San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la
sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di
coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine
che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime,
ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non
credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per
chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro,
non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di
evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per
essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è
anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno
per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di
vulnerabilità.
1. Se un membro
soffre
Con vergogna e
pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare
dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione
e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato
e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando,
nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005,
si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia
c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero
appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! […]
Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo
Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge
il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il
grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci (cfr Mt8,25)»
(Nona Stazione).
2. Tutte le
membra soffrono insieme
La dimensione e la
grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera
globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di
conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi
siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri
fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha
potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà,
intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di
fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e
specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che
le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228).
Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa
mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama
la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale,
«perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto
sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di
autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2
Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate,
165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior
antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di
Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello
sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e
realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano
l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure
della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte
di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad
applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse
aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel
futuro.
Unitamente a questi
sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella
trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale
trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a
guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire
San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero
dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto
di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a
guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a
convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto
la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio
penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del
Signore,[1] che
risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per
una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile
immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva
di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo
cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il
Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche,
spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo,
in definitiva senza vita.[2] Ciò
si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella
Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati
comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – quale è il
clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei
cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale
che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3].
Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una
scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali
che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi
forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare
che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste
piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo,
come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di
relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha
voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort.
ap. Gaudete et exsultate,
6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male
che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci
riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di
un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati
e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi
rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso
dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della
Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed
effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci
aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli
feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e
della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in
sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e
recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi
creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato
significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che
come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità
commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano
la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i
peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli
errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e
impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la
penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il
nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di
dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il
digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei
bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di
giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni
giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a
impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e
con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale,
di potere e di coscienza.
In tal modo potremo
manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»
(Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre,
tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante
l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e
comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della
compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha
saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo
qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione
esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione
che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di
più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali,
319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la
prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di
fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare
a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di
Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia
la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti
a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di
lottare con coraggio.
Vaticano, 20 agosto 2018
Francesco
[1] «Questa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il
digiuno» ( Mt 17,21).
[2] Cfr Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile, 31
maggio 2018.
[3] Lettera al Cardinale Marc Ouellet, Presidente della
Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016.
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