Oggi, Venerdì Santo per noi, è anche il plenilunio di primavera e quindi il primo giorno di Pesach, della Pasqua ebraica (30 marzo - 7 aprile 2018).
Ho tratto dal sito della comunità ebraica di Bologna alcune riflessioni molto interessanti spiritualmente per noi. Auguri ai nostri fratelli e sorelle ebrei, che ci hanno trasmesso le Promesse, la Legge, i Profeti e dal loro popolo è nato Gesù.
Mai più antisemitismo, e mai più oppressione dell'Uomo sull'Uomo.
Come ci si
prepara ad accogliere la festa
Ogni festa
ebraica richiede un’accurata preparazione che coinvolge soprattutto la donna:
ma quella di Pesach necessita di un impegno particolare.
E’ scritto:
“Per sette giorni mangerete pane azzimo, ma prima che giunga il primo giorno
toglierete dalle vostre case ogni lievito; osserverete quindi questo giorno in
tutte le vostre generazioni” (Es 12, 15-17).
Per rivivere
nel tempo il momento fatidico della loro liberazione dalla schiavitù e della
loro nascita a popolo libero, gli ebrei mangiano tuttora ogni anno a Pesach,
per sette giorni (fuori di Israele otto), il pane azzimo. E’ facile comprendere
come l’ordine di eliminare dalla casa ogni tipo di sostanza lievitata imponga alla
donna il dovere di compiere un’accuratissima pulizia della casa. Un impegno che
peraltro le donne eseguono con entusiasmo e con estrema spolverando, lavando
ogni recondito angolo dei mobili, dei ripostigli, e di tutta la casa, per
prepararla a introdurvi il pane azzimo, cioè il pane non lievitato che in
ebraico si chiama matzah.
La ragione
per cui a Pesach gli ebrei mangiano pane azzimo è da rintracciarsi nel fatto
che uscirono così frettolosamente dall’Egitto che non ebbero il tempo per fare
lievitare il pane. Se poi esaminiamo la storia e gli usi dell’antico popolo di
Israele, possiamo scoprire nel pane non lievitato significati assai più
profondi e mistici: il pane azzimo era quello che il sommo sacerdote mangiava
sull’altare durante i sacrifici. Secoli dopo divenne il pane comunemente usato
dalla setta mistica degli esseni.
Evidentemente
l’antica civiltà ebraica aveva un certo rifiuto per il lievito forse perché,
essendo il risultato della fermentazione di un impasto di farina, gli faceva
perdere le caratteristiche di un alimento puro, trasformandolo in cibo impuro:
esso assume perciò nella concezione ebraica il simbolo di quel che non deve
essere, in pratica simbolo del male. Interessante a questo proposito notare
l’attinenza fra i nomi hametz, “cibo lievitato”, e hamas, “violenza”, quindi
ingiustizia e immoralità. Il far scomparire dalla casa ogni genere di cibo
lievitato va quindi interpretato anche come un invito a sgomberare il nostro
animo da ogni tipo di hametz, o di hamas, da ogni residuo di odio, di rancore,
di violenza, di corruzione, per presentarsi liberi e puri dinanzi al Signore,
degni pertanto di offrire il zevach pesach, il “sacrificio pasquale”.
Cena di Pesach. |
Il Seder
(…) Il Seder
è una cerimonia di alto valore pedagogico sotto molteplici aspetti. A ogni
commensale, per sottolineare il senso della libertà appena acquisito, è
permesso di sedere a tavola senza osservare le strette regole dell’etichetta:
si possono appoggiare i gomiti sul tavolo, o sdraiarsi comodamente sulle seggiole,
cose che i commensali adulti in genere, per vecchia abitudine, evitano di fare,
ma che rende estremamente felici i bambini che assaporano a loro modo il primo
senso di libertà.
Sul tavolo
apparecchiato viene posto in cesto contenente tre pane azzimi (matzah), in
ricordo del pane non lievitato mangiato nel deserto, una zampa d’agnello
(pesach), in ricordo del zevach pesach, il sacrificio pasquale compiuto dal
popolo che si accingeva a uscire dalla schiavitù, e dell’erba amara (maror),
diversa a seconda delle tradizioni e della provenienza di chi celebra il Seder,
in ricordo dell’amarezza patita dagli ebrei in schiavitù.
Il maror
simboleggia forse il passo più importante verso la conquista della libertà.
Dalle amarezze del passato, che lasciate fermentare, “lievitare” nell’animo e
nel cuore, avrebbero potuto trasformare il popolo ebraico in un popolo crudele
e vendicativo , è stato invece tratto un insegnamento basilare: è necessario
affrontare la vita con una più consapevole e serena visione del rapporto fra
gli uomini, è indispensabile volgere il cuore e l’animo con profondo affetto e
comprensione verso i poveri, gli oppressi, i sofferenti.
Dalle
amarezze della schiavitù è nato un inestinguibile odio per la schiavitù, la
nostra, e quella di qualunque creatura, e un altrettanto inestinguibile amore
per la libertà a cui ogni essere umano ha diritto e che, unica, permetterà ai
figli di Israele anche in futuro di sopravvivere per adempiere alla missione.
Oltre a
questi tre simboli di Pesach (pesach, matzah, maror), nel cesto vi è un uovo
sodo, il charoseth, un impasto preparato anch’esso secondo ricette che variano
a seconda delle tradizioni dei vari luoghi di provenienza, e che simboleggi la
malta che gli ebrei schiavi erano costretti a preparare in Egitto per
fabbricare i mattoni con cui avrebbero edificato la città del Faraone. Per il
Seder però la malta si trasforma in un dolce impasto di frutti: datteri, noci,
mandorle e altro per sottolineare la fine della schiavitù. Vi è poi del sedano
(carpas), che deve essere intinto in acqua e sale, o in acqua e aceto:
probabilmente una specie di aperitivo in vista della cena.
Sul tavolo
viene posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla santificazione della
festa attraverso il vino e il pane, un altro bicchiere d’argento pieno di vino
destinato al profeta Elia. La tradizione vuole infatti che il profeta, durante
la prima sera di Pesach, si aggiri fra le case degli ebrei per portare i suoi
voti augurali alle famiglie che celebrano il Seder, e ognuno spera di far parte
dei privilegiati che riceveranno la sua visita.
La visita è
tanto più attesa in quanto la tradizione afferma che sarà proprio il profeta
Elia ad annunciare al mondo il giungere dell’Epoca messianica. E ogni ebreo
vive la speranza che l’Epoca messianica, l’epoca della pace, dell’armonia,
dell’amore fra tutti i popoli, sia proprio lì, dietro la porta di casa, porta
che infatti, durante il Seder, viene lasciata aperta anche perché è detto: “chi
vuole entri, mangi e celebri Pesach”.
Forse l’uso
si riallaccia anche al Talmud in cui è scritto: “Nel mese di Nissan fummo
redenti, e nel mese di Nissan siamo destinati a essere redenti” (Rosh ha-shanah
11).
Val la pena
soffermarsi un momento sul significato dell’uovo sodo. Per l’ebraismo esso ha
un valore tutto particolare. L’uovo è infatti il primo cibo che si offre a
coloro che sono in lutto per la perdita di un parente stretto, in quanto è il
simbolo della vita che si appresta a nascere, in opposizione alla morte. Perciò
nel momento in cui il nostro animo è in preda alla disperazione e ci pare di
non poter trovare né conforto né consolazione a una perdita irrimediabile, esso
ci insegna che la vita che vive in noi è un dono che Dio ci ha concesso, e che
in questo dono dobbiamo trovare la forza di continuare la nostra opera.
Inoltre
l’uovo non ha spigoli, perciò non ha né un punto di inizio né un punto di fine.
Così la sua rotondità, proprio nel momento in cui pare che con la morte sia
tutto finito, ci ricorda che la vita è un ciclo che, come l’uovo, non ha né
inizio né fine: chi dai propri cari ha ricevuto la vita e gli insegnamenti, chi
lascia dietro di sé il dolore dei figli ai quali ha trasmesso la vita e gli
insegnamenti, continua a vivere attraverso di loro.
Ed è questo
il modo umano di conquistare l’eternità.
Il segno del
lutto che noi aggiungiamo al festoso cesto del Seder, e che per tradizione
viene consumato da tutti i primogeniti maschi (ma se anche altri ospiti
vorranno associarsi, potranno farlo) è un triste ricordo degli innocenti figli
primogeniti degli egiziani, vittime della cieca ostinazione del Faraone.
Proprio per questa ragione è il primogenito ebreo che, per dimostrare il
proprio dolore per la morte dei fratelli egiziani, usa mangiare l’uovo sodo.
Per la
medesima ragione i maschi primogeniti, il giorno precedente il Pesach, fanno
digiuno.
Dicevamo che
il Seder è molto importante anche dal punto di vista pedagogico: dopo il
Kiddush il primo intervento è riservato al commensale più giovane o, in coro,
ai più giovani; si tratta del Mah nishtannah: “come è diversa questa serata da
tutte le altre sere!”. Il canto è composto da quattro domande che il bambino
rivolge agli adulti: “Perché tutte le altre sere mangiamo pane, e questa sera
azzima? Perché tutte le altre sere mangiamo qualsiasi tipo di verdure, e questa
sera erba amara? Perché tutte le altre sere non intingiamo (riferito al sedano
intinto in acqua e sale o aceto) neppure una volta, e questa sera due volte?
Perché tutte le altre sere mangiamo seduti, e questa sera sdraiati?”.
Le domande
danno il via alle risposte, impartito attraverso la lettura della Haggadah che
narra gli eventi miracolosi legati all’uscita dall’Egitto.
Durante il
Seder si devono quattro bicchieri di vino in memoria delle quattro espressioni
usate da Dio quanto preannuncia a Mosè la prossima liberazione del popolo: “li
sottrarrò” dalle sofferenze dell’Egitto “; “li farò uscire” dal luogo di
schiavitù; “li redimerò e li prenderò come mio popolo”. Esse rappresentano i
vari stadi della libertà appena riconquistata che vanno elevandosi a sempre
maggior livello fino a raggiungere la santità di “li prenderò come mio popolo”
(Es 6,7).
La Torah
aggiunge una quinta espressione: e “li farò entrare nella terra promisi ai loro
padri” (Es 6,8). Non può esistere in effetti una completa libertà morale se non
è legata a una libertà di comportamento, possibile solo in uno stadio proprio e
indipendente.
Durante la
lettura della Haggadah vengono nominate le dieci piaghe che hanno colpito
l’Egitto e per ognuna di essa si versa un po’ di vino contenuto nel bicchiere
in un recipiente: ciò sia per augurarci che queste disgrazie siano sempre
lontane da noi e dalle nostre famiglie; sia per ricordare che nessuna gioia può
essere completa se è costata lutti e dolori ad altri; sia, infine, per
auspicare che mai più si ripeta una situazione in cui un popolo meriti di
essere colpiti da tanti flagelli.
Un momento
particolarmente interessante, e psicologicamente e pedagogicamente assai
valido, è quello dedicato alla lettura del brano riguardante i “quattro figli”:
il sapiente, il semplice, colui che non è capace neppure di domandare, e il
figliolo cattivo.
I quattro
figli rappresentano i vari tipi di cui l’umanità è composta e il testo della
Haggadah ci fornisce importanti suggerimenti sul tipo di risposta da dare ad
ognuno di essi.
Al saggio,
cioè colui che pone una domanda acuta e complessa, si deve dare una risposta
adeguata, dotta e approfondita, che non deluda né sottovaluti l’intelligenza e
la capacità di apprendimento di chi domanda.
Al semplice
occorre dare una risposta chiara e comprensibile per permettergli di capire
pienamente il senso di quanto gli si sta spiegando, stimolandolo possibilmente
a far nuove domande.
Particolarmente
importante è l’insegnamento che viene impartito al figlio che non è in grado di
porre domande; ci dice infatti la Haggadah: “A colui che sa domandare, aprigli
tu la bocca!”. Importante notare che nella frase “apri tu”, il “tu” è espresso
al femminile, “apri” al maschile. È la madre la prima insegnante del bambino,
tocca quindi soprattutto a lei, fin dall’inizio, seguire con la massima
attenzione il suo sviluppo mentale: ma è il padre che deve coadiuvare e
sostenere sua moglie in questa opera. Se ne conclude che solo la collaborazione
fra padre e mandre permette un normale, sereno sviluppo del carattere
infantile.
Inoltre, se
un bimbo si mostra totalmente disinteressato al mondo che lo circonda, non fa
domande e non si pone interrogativi, se dà segno di isolarsi e di non
partecipare in alcun modo alla vita attorno a lui, lungi dal rallegrarsi per il
“buon carattere” del bambino che non disturba, “aprigli la bocca”, sollecita
cioè la sua curiosità, coinvolgilo nei fatti che accadono per renderlo vivo,
interessato e partecipe, aiutandolo quindi a crescere e a entrare in modo
intelligente e attivo nella società.
Intrigante e
piuttosto ironica è la risposta destinata a quel figlio che nella Haggadah
viene nominato per secondo: il figlio “malvagio”, che forse rientra più nella
categoria dei figli contestatari che in quella di veri e propri “cattivi”.
Egli chiede:
“Che cosa significa questa cerimonia (il Seder) per voi?”; domanda in cui
sottolinea: “Per voi, e non per me!”.
Si pone in
questa maniera, con una certa arrogante superiorità, totalmente al di fuori del
gruppo.
Suggerisce
la Haggadah: “Tu rispondigli risentito (letteralmente “fagli digrignare i
denti”); “Se tu fossi stato presente al momento della salvezza, non saresti
stato salvato!”.
Una riposta
apparentemente impietosa.
Ma
riflettiamo sui motivi che spingono tante volte i giovani, e non sempre a
torto, a contestare certi atteggiamenti, certi usi ereditati e forse non
sufficientemente o logicamente spiegati. Nostro compito è quello di chiarire
per dar loro modo di comprendere. Ebbene, con la frase incisiva “tu non saresti
stato salvato” la Haggadah chiama il giovane a una responsabilità personale
facendogli rivivere in prima persona, oggi, il momento drammatico della
schiavitù. Ecco, gli dice la Haggadah, se tu, che adesso siedi con noi libero,
e puoi parlare liberamente dell’epoca della schiavitù, tu che oggi contesti e
rifiuti le responsabilità insite del passato, ti fossi trovato insieme ai
nostri primogeniti a scegliere fra schiavitù e libertà, con tutte le
responsabilità che tale scelta comportava, forse avresti vigliaccamente scelto
di continuare a servire Faraone. In tal modo non avresti meritato la salvezza e
oggi saresti ancora schiavo.
La Haggadah non
accenna però all’esistenza di un quinto figlio; quello che non c’è perché si è
staccato da ogni forma di tradizione e si è perso.
A qualsiasi
tipo di domanda, anche a quella del contestatore, può essere data una risposta,
risposta che può essere discussa, che può arricchire chi lo fa e chi la riceve
con nuove interpretazioni non necessariamente in antitesi o in contrasto con
quelle precedenti, ma persino innovative e progressiste.
Ma il figlio
che non è presente è perso.
Il Seder
finisce con una lunga serie di canti corali tradizionali composti da molte
strofe, la cui caratteristica precipua è quella della ripetizione, alla fine di
ogni strofa, di una frase: quella che tutti i commensali per tradizione
conoscono meglio e quindi cantano a gran voce con grande entusiasmo.
In ultimo
viene intonato il canto l’anno prossimo tutti a Gerusalemme, ricostruita, e
viene distribuito l’afikomen, preparato nella parte iniziale del Seder, che
simboleggia il sacrificio pasquale e che deve essere consumato quando si è già
sazi.
http://www.comunitaebraicabologna.it/it/festivita/pesach/79-pesach-5778-31-marzo-7-aprile-2018
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