Di fronte ai
crimini di pedofilia perpetrati da membri della Chiesa, in particolare presbiteri
e consacrati, alcuni organi di stampa e governi occidentali cercano di rendere obbligatorio
per legge per i sacerdoti di violare il segreto di confessione nel caso in cui
un pedofilo venisse a confessare questo peccato.
Questo va
completamente contro il Vangelo e la sostanza e bellezza del Sacramento della
Riconciliazione. Ma poi, chi si confesserà più se sa che sarà denunciato alla Polizia?
Ricordo che – alle medie stavo in una scuola cattolica – il “prefetto di disciplina”
non era disponibile per le confessioni di noi alunni, perché in caso di furto o
altre cose del genere, avrebbe potuto essere legato dal segreto di confessione.
La
penitenzieria del Papa lo ha ribadito in un documento pubblicato in questi giorni:
il segreto di confessione, e anche il segreto delle confidenze dette al
sacerdote in ambito di Direzione spirituale vanno rispettati assolutamente. Ieri
un progetto di legge nello Stato della California che avrebbe imposto ai sacerdoti
di violare il segreto di confessione è stato ritirato perché non sarebbe stato
votato.
Ecco una parte
del documento del Vaticano.
1. Sigillo sacramentale
Recentemente, parlando del sacramento della Riconciliazione, il Santo Padre Francesco ha voluto
ribadire l’indispensabilità e l’indisponibilità del sigillo sacramentale: «La
Riconciliazione stessa è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre
salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo
sacramentale. Esso, anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è
indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del
penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio
sacramentale resterà nel segreto della confessione, tra la propria coscienza
che si apre alla grazia di Dio, e la mediazione necessaria del sacerdote. Il
sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione,
né può rivendicarla, su di esso»[3].
Per esprimere questa verità, la Chiesa ha
sempre insegnato che i sacerdoti, nella celebrazione dei sacramenti, agiscono “in
persona Christi capitis”, ossia nella persona stessa di Cristo capo:
«Cristo ci permette di usare il suo “io”, parliamo nell’“io” di Cristo, Cristo
ci “tira in sé” e ci permette di unirci, ci unisce con il suo “io”. […] È
questa unione con il suo “io” che si realizza nelle parole della consacrazione.
Anche nell’“io ti assolvo” – perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai
peccati – è l’“io” di Cristo, di Dio, che solo può assolvere»[4].
Ogni penitente che umilmente si rechi dal
sacerdote per confessare i propri peccati, testimonia così il grande mistero
dell’Incarnazione e l’essenza soprannaturale della Chiesa e del sacerdozio
ministeriale, per mezzo del quale Cristo Risorto viene incontro agli uomini,
tocca sacramentalmente – cioè realmente – la loro vita e li salva. Per tale
ragione, la difesa del sigillo sacramentale da parte del confessore, se fosse
necessario usque ad sanguinis effusionem, rappresenta non solo un
atto di doverosa “lealtà” nei confronti del penitente, ma molto più: una
necessaria testimonianza – un “martirio” – resa direttamente all’unicità e
all’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa[5].
La materia del sigillo è attualmente
esposta e regolata dai cann. 983-984 e 1388, § 1 del CIC e dal can. 1456 del
CCEO, nonché dal n. 1467 del Catechismo della Chiesa Cattolica,
laddove significativamente si legge non che la Chiesa “stabilisce”, in forza
della propria autorità, quanto piuttosto che essa “dichiara” – ossia riconosce
come un dato irriducibile, che deriva appunto dalla santità del sacramento
istituito da Cristo – «che ogni sacerdote che ascolta le confessioni è
obbligato, sotto pene molto severe, a mantenere un segreto assoluto riguardo ai
peccati che i suoi penitenti gli hanno confessato».
Al confessore non è consentito, mai e per
nessuna ragione, «tradire il penitente con parole o in qualunque altro modo»
(can. 983, § 1 CIC), così come «è affatto proibito al confessore far uso delle
conoscenza acquisite dalla confessione con aggravio del penitente, anche
escluso qualunque pericolo di rivelazione» (can. 984, § 1 CIC). La dottrina ha
contribuito, poi, a specificare ulteriormente il contenuto del sigillo sacramentale,
che comprende «tutti i peccati sia del penitente che di altri conosciuti dalla
confessione del penitente, sia mortali che veniali, sia occulti sia pubblici,
in quanto manifestati in ordine all’assoluzione e quindi conosciuti dal
confessore in forza della scienza sacramentale»[6].
Il sigillo sacramentale, perciò, riguarda tutto ciò che il penitente abbia
accusato, anche nel caso in cui il confessore non dovesse concedere
l’assoluzione: qualora la confessione fosse invalida o per qualche ragione
l’assoluzione non venisse data, comunque il sigillo deve essere mantenuto.
Il sacerdote, infatti, viene a conoscenza
dei peccati del penitente «non ut homo, sed ut Deus – non come
uomo, ma come Dio»[7],
a tal punto che egli semplicemente “non sa” ciò che gli è stato detto in sede
di confessione, perché non l’ha ascoltato in quanto uomo ma, appunto, in nome
di Dio. Il confessore potrebbe, perciò, anche “giurare”, senza alcun
pregiudizio per la propria coscienza, di “non sapere” quel che sa soltanto in
quanto ministro di Dio. Per la sua peculiare natura, il sigillo sacramentale
arriva a vincolare il confessore anche “interiormente”, al punto che gli è
proibito ricordare volontariamente la confessione ed egli è tenuto a sopprimere
ogni involontario ricordo di essa. Al segreto derivante dal sigillo è tenuto
anche chi, in qualunque modo, sia venuto a conoscenza dei peccati della
confessione: «All’obbligo di osservare il segreto sono tenuti anche
l’interprete, se c’è, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta
notizia dei peccati della confessione» (can. 983, § 2 CIC).
Il divieto assoluto imposto dal sigillo
sacramentale è tale da impedire al sacerdote di fare parola del contenuto della
confessione con lo stesso penitente, fuori del sacramento, «salvo esplicito, e
tanto meglio se non richiesto, consenso da parte del penitente»[8].
Il sigillo esula, perciò, anche dalla disponibilità del penitente, il quale,
una volta celebrato il sacramento, non ha il potere di sollevare il confessore
dall’obbligo della segretezza, perché questo dovere viene direttamente da Dio.
La difesa del sigillo sacramentale e la
santità della confessione non potranno mai costituire una qualche forma di
connivenza col male, al contrario rappresentano l’unico vero antidoto al male
che minaccia l’uomo e il mondo intero; sono la reale possibilità di abbandonarsi
all’amore di Dio, di lasciarsi convertire e trasformare da questo amore,
imparando a corrispondervi concretamente nella propria vita. In presenza di
peccati che integrano fattispecie di reato, non è mai consentito porre al
penitente, come condizione per l’assoluzione, l’obbligo di costituirsi alla
giustizia civile, in forza del principio naturale, recepito in ogni
ordinamento, secondo il quale «nemo tenetur se detegere». Al contempo,
però, appartiene alla “struttura” stessa del sacramento della Riconciliazione,
quale condizione per la sua validità, il sincero pentimento, insieme al fermo
proposito di emendarsi e di non reiterare il male commesso. Qualora si presenti
un penitente che sia stato vittima del male altrui, sarà premura del confessore
istruirlo riguardo ai suoi diritti, nonché circa i concreti strumenti giuridici
cui ricorrere per denunciare il fatto in foro civile e/o ecclesiastico e
invocarne la giustizia.
Ogni azione politica o iniziativa
legislativa tesa a “forzare” l’inviolabilità del sigillo sacramentale
costituirebbe un’inaccettabile offesa verso la libertas Ecclesiae, che
non riceve la propria legittimazione dai singoli Stati, ma da Dio;
costituirebbe altresì una violazione della libertà religiosa, giuridicamente
fondante ogni altra libertà, compresa la libertà di coscienza dei singoli
cittadini, sia penitenti sia confessori. Violare il sigillo equivarrebbe a
violare il povero che è nel peccatore.
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